Recensione: Sound Awake

Di Tiziano Marasco - 27 Aprile 2015 - 12:22
Sound Awake
Band: Karnivool
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2009
Nazione:
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86

Tutti i grandi dischi hanno una storia alle spalle, ma è anche vero che i grandi dischi sono collegati a chi li adora da storie diverse. Così è anche per Sound Awake, il disco che portò il sottoscritto a conoscere con mostruoso ritardo i Karnivool, vale a dire lo scorso autunno e a fronte di riproposizioni di ascoltarlo durate almeno due anni e soprattutto a fronte di reiterati consigli, esortazioni all’ascolto da parte di amici che – constatando l’insipienza irreversibile – finirono per coprire il menzionato sottoscritto d’improperi.

Bisogna dire anche che il momento per ascoltare una band di cui tanto si sente parlare va scelto con cura, soprattutto perché di solito, alla faccia di piani e propositi, il momento giusto quando arriva arriva. E sulla carta, nel presente caso, si presentava sotto il peggiore degli auspici.

Lo scorso autunno, quando posai le orecchie su Sound Awake la prima volta, era da poco uscito Ótta, un disco della madonna di un altro gruppo, i Sólstafir, il cui ascolto era stato rimandato per troppo a lungo. Ma tant’è. Questo album degli australiani, uscito ormai sei anni or sono, aveva tutte le carte in regola per farsi apprezzare pian piano resistendo alle piogge autunnali ed arrivare fresco alla primavera, quando gli australiani li ho visti in concerto – da che appunto la risoluzione di scriverne le gesta.

Sound Awake infatti ha questa particolare caratteristica di presentarsi al primo impatto come l’anonimo dischetto di un gruppo post nu-metal/emocore con vaghi inserti di prog. Il gusto per la melodia di facile presa e la sapienza nel gestire tali melodie fanno sì che dopo pochi ascolti l’orecchio si drizzi e focalizzi su quanto passa in curva. Inutile dirlo, i Karnivool in questo album avevano dato sfoggio di saper unire con apparente naturalezza strutture complesse e ritornelli orecchiabili, sfuriate elettriche e malinconia.

E lo si capisce fin da subito dal climax incontenibile che domina Simple Boy, una song in continua evoluzione, con un testo semplice che si evolve su linee melodiche semplici eppure in costante crescendo, sempre più tesa, sempre sul punto di esplodere. L’splosione si verifica però con la successiva Goliath, dove le sei corde e la voce si fondono e creano una composizione isterica e compatta, intermezzata da un break atmosferico che pure non interrompe la drammaticità del pezzo, dotato per altro di liriche tanto evocative quanto accusatorie. Applausi, così come da applausi è la successiva New Day, in pratica il singolo pop perfetto, non fosse per la massiccia presenza di chitarre e gli 8 minuti di durata. Con la successiva Set the Fire To The Hive si torna invece a toni di pura battaglia, ritmi serrati e voce lancinante per un effetto prossimo a quello di Goliath, ma senza soluzione di continuità.

Toni sospesi, atmosfere rarefatte ed un impostazione nettamente neoprog danno forma a due ottimi pezzi malinconici come Umbra e All I Know, che comunque si mettono in luce per la struttura che vela una tensione in costante crescendo. E così via: il disco continua sempre su trame piuttosto complesse, in linea di massima melancoliche, seppur con una tensione latente sempre sul punto di esplodere, vedasi il meraviglioso trittico costituito da The Medicine Wears Off, The Caudal Lure e Illumine, in cui in effetti torna a farsi sentire qualche momento elettrico e carico di pathos, fino a giungere a quella che forse è la summa di Sound Awake, Deadman. Una minisuite di dieci minuti, incontro improbabile eppure riuscitissimo tra Tool e Beatles (!!!), risulta inevitabilmente il pezzo tra i più difficili all’interno del disco, eppure si conferma dotato di buona melodia, al di là di una struttura molto dilatata e carica di cambi di ritmo. Chiude infine Change, in cui ritornano ancora li linee furenti di pezzi come Goliath a interrompere una linea base sussurrata.

Un gran disco insomma, sebbene i presupposti, unire Tool, Nu metal e Progressive metal, avrebbero facilmente potuto trasformare Sound Awake in una fuffa banale e da dimenticare. Forse il merito è dei testi, di facile comprensione e comunque scritti con sapienza, in modo di far cadere le parole giuste al momento giusto. Forse il merito è della mostruosa interpretazione di Ian Kenny e della sua meravigliosa voce. Forse è merito della sinergia tra i due chitarristi o forse di quella tra basso e batteria. Forse tutto questo assieme.

Fatto sta che Sound Awake è stato uno dei migliori dischi prog del 2009.

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