Recensione: Sound of a Disease
Musica catartica. Musica che, nel caso degli Skam – o, meglio, della one-man band svedese – , serve a pulire l’anima e il pensiero dallo stress e dal caos della vita moderna, per frenare il declino della salute mentale.
È questo il concetto che forma la base di “Sound of a Disease”, full-length di debutto di tale M, che si assume la responsabilità in toto sia della voce, sia di tutti gli strumenti, per un controllo totale e assoluto della propria arte.
Dopo il classico incipit ambient, lo sfascio assoluto: ‘Have You Tried Not Thinking About It’ parte a velocità supersonica volando sulle ali dei tuoni. Il suono è pazzesco, totale, annichilente. A memoria vengono in mente solo due act che abbiano raggiunto una mostruosità simile: Anaal Nathrakh e Myrkskog. Il massimo dell’estremo più estremo, cioè.
M combina grindcore, death metal e D-beat, per una miscela esplosiva dall’impatto dirompente. Sono presenti, inoltre, elementi ambient dal gusto vagamente futuristico. Distopico, ovviamente. Toni cupi, quindi, per un qualcosa che potrebbe definirsi cybergrind, giusto per tentare di dare un’idea di un’entità che scappa da ogni confine musicale.
Nell’infernale agglomerato di note che, in modo convulso, ruotano alla velocità della luce attorno a un nucleo rovente, è difficile discernere e quindi separare la varia strumentazione.
La batteria è un continuo passare dall’up-tempo all’hyper-speed che solo la follia dei blast-beats riesce a raggiungere. Il basso romba con se il cielo fosse eternamente coperto da nubi plumbee anzi nere, da cui saettano, con il loro enorme carico di decibel, fulmini che sferzano l’atmosfera triturandone le molecole. Spaventoso il riffing, atto a creare un titanico muro di suono, sul quale, come frustate, vengono schioccati assoli rapidissimi e taglienti (*-core). Detto muraglione è invalicabile, quasi infinito nel piano cartesiano, quasi infinito nello spessore. Su tutto stride l’allucinata voce del Nostro, impegnato quasi più a urlare a tutta forza che tentare di allineare la sua ugola a qualche stile vocale, anche se ogni tanto fa capolino il growling. Malgrado ciò, il risultato, incredibilmente stentoreo, è da sublime stordimento.
Un sound inumano che, grazie alla sua incommensurabile energia di penetrazione, s’infila nei più reconditi anfratti dei gangli cerebrali per pulirli, per togliere quella pressione di cui si diceva all’inizio, per azzerare il campo magnetico di ogni neurone, di ogni assone, di ogni più minuscola particella di carne umana. E, dopo un lavaggio simile, ecco che tutto appare più chiaro, più sereno, meno angoscioso. Come se le mente ripartisse da zero, cogliendo pertanto gli esiti di quanto proposto dal carnefice scandinavo.
Come da tradizione del grindcore le canzoni sono brevi, in questo caso aventi una durata contenuta entro due minuti e mezzo circa – a parte la… suite finale ‘Sentencing’. Questo non esime, tuttavia, di raggiungere valori pazzeschi di newton di spinta, come accade, per esempio, nella spaventosa ‘Used, Defiled, Expended’, inno al massacro totale. Inoltre, e qui è insita la bravura degli Skam, quasi incredibilmente i vari brano riescono ad avere una propria identità. Operazione complicatissima, dato il marasma totale in cui sono immersi, frutto evidente di un talento senz’altro poco comune.
Dopo qualche passaggio del disco, finalmente crollano le difese psichiche e così ci si può far trasportare nel regno della più forsennata psicosi (‘Sentencing’, di nuovo…), lasciandosi letteralmente andare per dimenticare tutto e tutti. Per un oblio definitivo, libero dalla psicosi, questa volta reale, del Mondo attuale.
Non-umani.
Assolutamente.
Daniele “dani66” D’Adamo