Recensione: Space Invader
Space Invader esce trentasei anni dopo Ace Frehley, unanimemente considerato il migliore dei quattro album solisti che i membri della formazione classica dei Kiss pubblicarono nel 1978. Assieme al gatto Peter Criss, Space Ace formava la coppia scapestrata dei Kiss, che si opponeva (ma, al contempo, completava) alla premiata ditta Simmons-Stanley, più razionale e prototipicamente rock star.
Se Stanley ha una gran penna, se Simmons è il re degli affari e se Criss ha almeno scritto Beth, Ace è forse il più dotato di vero talento musicale, spesso bistrattato da una condotta scriteriata nella vita e, dunque, nella carriera.
Certo, l’alchimia dei Kiss degli anni settanta è qualcosa di livello superiore, frutto del delicato equilibrio di quattro personaggi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica. Pur non potendo esimersi dai rapporti che ogni prodotto solista di Ace intrattiene con la sua band madre, non è avendo in mente quell’unico modello che bisogna ascoltare un nuovo lavoro di Ace Frehley, ma si deve provare ad immunizzarsi dal peso della storia che quella chitarra e quella voce portano con sé. Ed ecco che Space Invader non è più solo il disco solista del chitarrista storico dei Kiss, ma un prodotto che trasuda tutta la passione ed esperienza di un uomo di sessantatre anni vissuti alla grande.
Oltre alla chitarra, che suona proprio come vi immaginate, il valore aggiunto dei dischi dell’uomo dello spazio risiede nella sua voce stentorea, che pare sempre a un passo dallo spegnersi in un rauco colpo di tosse. Quasi una metafora della vita di Ace, la sua voce vive costantemente sul crinale della caduta, ma alla fine riesce non solo a reggere ma addirittura a impreziosire i pezzi con un grado di personalità che manca a tante band dei giorni nostri.
Ascoltate l’opener, Space Invader: un grande attacco per una canzone semplicemente rock che dà il via a un disco privo di grandi picchi e profonde cadute, ma costantemente piacevole. Il pezzo, da solo, vince il confronto con l’intero, orribile, Monster, ultima fatica degli altisonanti ex compagni di band di Ace.
L’accoppiata Gimme A Feelin’ e I Wanna Hold You suona party rock alla grande: soluzioni già sentite, stop and go prevedibili, ma che classe nel saperli gestire senza scadere nella banalità!
Change sa un po’ di Ratt (o è il contrario?), mentre Toys vive di un ritornello retro, ma non per questo anacronistico.
Il cuore del disco è occupato da due dei pezzi meglio riusciti, Immortal Pleasures e Inside the Vortex, che davvero valorizzano tutta l’esperienza che Ace si è fatto sul campo nei quarant’anni di carriera che ha alle spalle.
What Every Girl Wants ha un titolo che piacerebbe a Gene Simmons e non stupisce che sia l’ennesima variazione sul tema rock ‘n roll senza fronzoli, che fece la fortuna dei primi Kiss, quelli che ebbero la propria consacrazione con Alive.
Past The Milky Way, invece, è un mid tempo che esplora terre meno frequentate, mandando odore di Wanted Dead Or Alive del Bon Jovi che fu.
Dopo la piuttosto trascurabile Reckless, ecco la cover della celeberrima The Joker di Steve Miller. Prima o poi dovevamo aspettarci che Ace l’avrebbe messa su qualche proprio disco. Anzi, quasi ci si stupisce che abbia atteso tanti anni prima di registrare un pezzo che inizia con le seguenti parole: “Some people call me the space cowboy / Some call me the gangster of love”.
Infine, ecco il pezzo strumentale, immancabile nei dischi solisti di ogni chitarrista che si rispetti. E Starship stupisce: bellissima, aggressiva e quasi dolceamarama, fa un po’ rimpiangere quello che Ace avrebbe potuto dare e forse non è stato in grado di valorizzare appieno. Ma chissà che non sia meglio così.
Sapete cosa aspettarvi da un disco di Ace Frehley. Tra i suoi lavori, questo Space Invader va ad occupare una posizione alta, pur non riuscendo neppure ad intravedere la qualità dell’esordio del 1978. Ma erano altri tempi e altre età. Nel complesso, ascolto consigliato a giovani e meno.
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