Recensione: Space revolver
Guardando indietro negli anni, o meglio, guardando indietro al volgere del millennio, riesce sempre spontaneo notare come detto cambio abbia avuto sull’animo umano un grosso ascendente. Pensando alla cultura musicale pop, coloro che hanno la giusta età rammenteranno schiere di gruppettini inutili pronti ad intitolare Millennium i loro album. In culture musicali più nobili l’osservatore attento nota come il passaggio d’era abbia prodotto effetti più profondi, con tutta una serie di band che decise di proiettare il proprio suono in un futuro che al tempo, sembrava fantascientifico (ed ora è ben oltre le peggiori aspettative che ci eravamo fatti da quindicenni, invasioni aliene a parte). Ad ogni modo vennero fuori dischi indimenticabili, da Cosmic Genesis a Midian, da Quintessence a If then else. E i Flower kings? Beh, poteva forse una band prog e hippie estraniarsi ad un simile delirio? Poteva forse farlo una band che, appena tre anni prima, aveva chiuso Stardust we are con la frase “we paint the stars, we walk the moon”?
Naturalmente, no, non poteva, e quindi ancora una volta ci troviamo di fronte ad una band per cui il 2000 é stato un punto di svolta, rappresentato nella fattispecie da Space Revolver. Indiscutibilmente il quinto album del re floreale rappresentò uno spartiacque nella musica di Stolt e soci. Una musica che fino ad allora erano andati sempre più alla derviva verso un rock neopsychedelico a contenuti lisergici altissimi e che aveva toccato il culmine appena un anno prima con Flower Power (basta il titolo). Va detto peraltro che Space revolver è parte di un periodo di produttività artistica spaventosa da parte degli svedesi, che nel giro di 5 anni riusciranno a piazzare ben 5 uscite, due delle quali doppie (anche se questo non è un elemento che lasci sorpreso un flower kid. Semmai lascia sconcertate le persone normali). Soprassediamo volentieri anche sul fatto che queste cinque uscite furono altalenanti in quanto a risultati.
Ad ogni modo Space revolver vede una netta semplificazione, se così si può dire, della proposta degli svedesi. A cominciare dal formato, trattasi infatti di un disco singolo, mentre i suoi predecessori (Stardust we are e appunto Flower power) mettevano assieme oltre 130 minuti di musica a testa. Ciò può essere dovuto all’estemporaneo cambio d’etichetta: la Century Media infatti solo per questa release si sostituì alla impagabile InsideOut. E può dunque essere che il contratto con una major ad orientamento non esattamente filoprog possa aver influenzato in certo modo, oltre che lo snellimento del minutaggio, anche uno sfoltimento della psychedelia.
Si parla di semplificazione, dunque meno Genesis e più Pink Floyd. Yes sempre ottimi e abbondanti, ma quasi solo quelli di Close to the edge. E infine fanno la loro prepotente comparsa i fab four, protagonisti incontrastati tra le influenze di questo disco. I riferimenti al sergente pepato e al sottomarino giallo infatti si contano a bizzeffe. Dall’uso di sample contenenti applausi di pubblico, ai sottofondi con orchestrine, fiati e trombette, al modo di cantare megafonico di Fröberg. Megafonico nel senso che diverse volte sembra urlare in un megafono, in omaggio, per nulla velato, all’inizio di Magical mystery tour. E tanto per restare al cantato, si nota come le melodie e i ritornelli siano estremamente catchy: dal ritornello di I am the Sun alla strofa di Chicken Farmer song che vigorosamente anticipa the Rainmaker, dai due minuti di You Don’t Know What You’ve Got (forse la canzone più semplice mai scitta dai Flower kings) fino a Monster within. Tutti i brani mettono in evidenza linee vocali molto facili da memorizzare, cosa che fino ad allora si era verificato di rado (chi ha detto There is more to this world?). Si è detto di allegerimento, sicuro, ma vi sono anche alcune sporadiche aperture all’hard rock, come le brevi divagazioni su Underdog o I am the sun.
Naturalmente, data la materia trattata, non aspettatevi di ascoltare 90215, anzi, ad ogni caso é bene armarsi di pazienza innanzi a certi passaggi strumentali che, se fanno piacere al flower kid modello, possono causare non infrequenti scoli di bile all’ascoltatore normale. Se i primi 6 minuti di I am the sun sono da incorniciare infatti, gli ultimi 9 si perdono in una interminabile jam che risulta piuttosto ostica. Stesso discorso per Rumble Fish Twist, otto minuti in cui momenti di pura poesia e fredda progettazione sonora vengono accostati come se nulla fosse, il che lascia immancabilmente perplessi.
Ad ogni modo, sebbene non raggiunga i livelli degli insuperabili Stardust We are, Paradox Hotel e soprattutto The rainmaker, ( che pur qui viene ampiamente anticipato), Space revolver é una prova di ottimo livello. Soprattutto, é un disco che rivela la vera indole prog dei The Flower kings, che fino ad allora avevano realizzato dischi abbastanza simili tra loro. Vale a dire che Space revolver mette in mostra, quell’indole tesa a cercare nuove vie sonore e a non dar mai freno all’ispirazione. Ed è cosa buona e giusta.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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Tracklist:
01. I Am The Sun – Part One (15:03)
02. Dream On Dreamer (2:43)
03. Rumble Fish Twist (8:06)
04. Monster Within (12:55)
05. Chicken Farmer Song (5:09)
06. Underdog (5:29)
07. You Don’t Know What You’ve Got (2:39)
08. Slave To Money (7:30)
09. A Kings Prayer (6:02)
10. I Am The Sun – Part Two (10:48)
Line-up
Roine Stolt: voce, chitarra, basso
Tomas Bodin: piano, organo, synth, mellotron
Hans Fröberg: voce, chitarra acustica
Jonas Reingold: basso
Jamie Salazar: batteria
Hasse Bruniusson (ospite): percussioni, voce
Ulf Wallander (ospite): sax