Recensione: Spartacus
Se c’è una scena che da qualche anno a questa parte gode di ottima salute è certamente quella death metal e se c’è un paese che può vantarsi di aver contribuito a mantenere buono il suo stato di salute (se non addirittura a migliorarlo) questo è sicuramente l’Italia. Come la Polonia di inizio millennio, che grazie ad act quali Vader, Behemoth e Decapitated fece da baluardo nei confronti delle derive più -core e moderniste, così oggi il Belpaese è terreno fertilissimo per il death metal: Fleshgod Apocalypse e Hour Of Penance, in giro per il mondo in tour estenuanti e autori di lavori sulla bocca di tutti, sono lì a dimostrarlo, ma ciò che impressiona di più è il sottobosco underground, dove ogni giorno sembrano nascere nuove realtà, dove i concerti sono sempre più numerosi e dove l’elevata preparazione tecnica è requisito minimo quasi dato per scontato, mentre maturità, professionalità e capacità compositive – qui la notizia – stanno diventando anch’esse lo standard.
In questo contesto così positivo non possono non essere inseriti anche i capitolini Ade, che già con il precedente Proemium Sanguine avevano stupito con un full length di debutto davvero positivo. Tornano a farsi sentire quest’anno con Spartacus, concept album convincente sotto tutti gli aspetti. Ancora una volta, la band romana sceglie il passato per ambientare i propri scenari e, ancora una volta, è Roma ad essere raccontata, con le sue vicende più celebri. Come il titolo lascia immaginare, tutte le liriche ruotano attorno allo “schiavo che sfidò l’impero” e gli Ade, senza cadute di stile, riescono a trasportare l’ascoltatore all’indietro nel tempo in un’epoca dove onore e libertà si guadagnavano con il sangue. Lo fanno con un death metal tecnico e feroce, quadrato ed efficace, marziale come i fatti narrati richiedono. Per l’occasione, importante il contributo del guest drummer George Kollias (Nile, Nightfall, Tyr, tra gli altri) oramai assurto al ruolo di “top player” all’interno della scena death mondiale, il cui ruolo arricchisce di classe un lavoro già di per sé sufficientemente ricco di sfumature. Oltre a questa presenza di lusso, impossibile non menzionare anche il lavoro svolto da Simone D’Andrea, che si è occupato di suonare e arrangiare tutta una serie di antichi strumenti acustici indispensabili per conferire ai pezzi quell’atmosfera antica e mitica: l’Oud, antichissimo strumento a corde di origine araba, il flauto, la lira, la darabouka e il djembe, due strumenti a percussione di origine medio-orientale il primo e centro-africana il secondo. Basi assolutamente professionali e serie che fanno il paio, come vedremo, con capacità compositive di tutto rilievo.
L’apertura è al fulmicotone: in Betrayer From Thrace sono gli stessi dei a spingere lo schiavo alla diserzione e alla rivolta: le harsh vocals di Flavio, sempre sufficientemente intelligibili, chiamano Spartaco per nome con forza, in un pezzo breve ma ficcante; musicalmente, come si è già detto, siamo in territorio death metal tecnico, con le accelerazioni più aggressive di stampo polacco e la marzialità dei migliori Kataklysm; mai eccessivamente brutali e opprimenti, come potrebbe essere invece l’approccio dei Nile (primo nome che viene in mente avvicinandosi agli Ade, viste le affinità in termini concettuali e di stile), al contrario, i nostri tendono ad alleggerire l’ascolto con pezzi abbastanza brevi e ricchi di stacchi e break. E qui è doverosa una riflessione: spesso e volentieri il breakdown è considerato un puerile mezzo per accattivarsi i favori del pubblico, specialmente quello più giovane. Questo non succede affatto in Spartacus, il quale, scevro da inclinazioni modaiole, presenta un trionfo di riff stoppati e di rallentamenti improvvisi, utili a renderne le composizioni attuali nello stile e a favorirne la dinamica. Esempio in questa direzione la fragorosa Sanguine Pluit in Arena, costruita su un tappeto di blast beat che si interrompono verso i 3/4 del pezzo in un break curato magnificamente, in modo da conferire solennità al passaggio: Libertas! Soavi versi femminili (a cura di Antonella Poerio) introducono The Endless Runaway: la fuga di Spartaco e dei suoi fedeli si macchia di sangue. E in conformità al testo, è la velocità a farla da padrone, ma non è una cavalcata irrefrenabile: il drumming di Kollias è nervoso, ricco di variazioni sul tema, come a sottolineare i tentennamenti e le difficoltà di una rivolta disperata. Ancora scelte azzeccate per Duelling The Shadow Of Spartacus, sia in termini di riffing che di songwriting (magistrali la scelta delle variazioni ritmiche e dei rallentamenti lungo tutto il pezzo). Anche l’arrangiamento è sugli scudi, tra i soliti (ormai) inserti acustici e gli accenni corali così solenni benché non in primo piano. E se le due tracce immediatamente successive sono brevi e dirette, è con un pezzo più lungo come Six Thousands Crosses che gli Ade riescono a mostrare tutte le loro sfaccettature: dal prologo epico e coinvolgente, alle parti recitate che immediatamente lasciano spazio alla furia cieca di chitarre e base ritmica; dai rallentamenti gagliardi che duellano senza soluzione di continuità con le accelerazioni parossistiche, al sottofondo di strumenti acustici che danno colore ed atmosfera al brano. L’album si chiude senza cali di tono, al contrario: Divinitus Victor si fa notare per un refrain incisivo e …For Everything To Be The Same per l’ottimo lavoro in fase di ritmiche, assolutamente ricercato. E a proposito di complessità, è importante sottolineare come allo stato attuale il ruolo di ospite alla batteria di George Kollias sia stato coperto da Giulio Galati (Hideous Divinity), uno dei più promettenti death metal drummer in Italia: la riproposizione di certi passaggi così intricati è in qualche modo garantita.
Con Spartacus, gli Ade si confermano semplicemente come uno dei fiori all’occhiello del death metal tricolore. Un disco appassionante, coinvolgente, adatto ad un’audience probabilmente più ampia dei soli estimatori del metal estremo, grazie ai riferimenti storici, all’ampio respiro dei passaggi più cinematografici e all’originalità degli strumenti antichi ben sfruttati. Indubbiamente, abbiamo a che fare con una delle realtà più interessanti del panorama italiano, già pronta per la ribalta internazionale. Non devono passare inosservati.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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