Recensione: Special Back From The Ruins [Reissue 2022 – 40th Anniversary Edition]
Quando uscì “Vanexa”, nel 1983, l’Italia assaggiò in mezzo ai denti la risposta più aderente da parte di un gruppo di connazionali alla Nwobhm, più in particolare all’ala più violenta, tradizionalista e sferragliante di quel movimento, in una sola parola: Saxon!
Così come gli Stallions of the Highway dello Yorkshire Syl Bottari (batteria), Sergio Pagnacco (basso), Roberto Merlone (chitarra) e Marco Spinelli (voce) puntavano al cuore dell’Acciaio, alla linearità d’esecuzione, lasciando da parte le svisate più evolute e progressive (mi si passi il termine) degli Iron Maiden, tanto per fare un nome non a caso.
Ovvio, quindi, che per il successore del disco d’esordio vi fosse un’attesa febbrile anche perché, in quel momento, di altre realtà tricolori così taglienti nei suoni e nell’attitudine ve ne erano davvero poche. Strike e Berserks non seppero dare vera continuità al loro progetto mentre il resto degli alfieri dell’Acciaio ‘straight in your face’, leggasi Sabotage, Crying Steel, Revenge, Gunfire, Skanners, Hocculta, Raff, Rollerball, Spitfire, Unreal Terror, stavano sì sgomitando, ma ancora a livello di demo. I Dark Lord non seppero fornire adeguate risposte, per via delle lotte intestine, all’omonimo e pregevolissimo Ep del 1983. Non a caso furono proprio i Vanexa a essere posti in posizione di headliner al mitico festival di Certaldo del 1983, idealmente l’inizio di tutto nel nostro Paese.
Back From The Ruins era quindi atteso per l’anno successivo, il 1984. La band aveva già pronti tutti i pezzi ma poi le cose non andarono per il verso giusto e si dovette aspettare sino al 1988 per vedere torreggiare nelle vetrine dei negozi il disco con le rovine in copertina.
Così ricorda quei passaggi tribolati Syl Bottari:
Iniziammo le registrazioni nel 1984 presso il “Stone Castle Studio” di Carimate, ci prenotammo per due settimane. All’epoca era uno dei più famosi d’Europa, lì nacque “Big Generator” degli Yes, ovviamente non era propriamente a buon mercato. Alla fine della prima settimana ci buttarono letteralmente fuori tenendosi in ostaggio i nostri strumenti: il nostro manager non aveva rispettato gli accordi nei pagamenti e aveva consegnato al proprietario del Castello di Carimate degli assegni scoperti. Fondamentalmente è stato questo il motivo per il quale Back From The Ruins è uscito quattro anni dopo! Per poter concludere, in qualche modo, ci rivolgemmo a una finanziaria e non fu per nulla semplice, ci volevano una decina di milioni di lire, che all’epoca erano dei bei soldi e noi quattro eravamo degli squattrinati impenitenti. Grazie al contribuito di una mia amica che lavorava nel settore riuscimmo dopo varie peripezie ad ottenere delle cambiali a 36 mesi, ritornammo quindi negli studi di Carimate nel 1986 per finire il lavoro e riprenderci gli strumenti sequestrati. L’approdo alla Minotauro di Marco Melzi fece il resto e Back From The Ruins vide la luce solamente nel 1988.
Nelle aspettative, come da canovaccio del periodo, era lecito attendersi un incremento di cattiveria e violenza e invece non fu così.
Un lasso di cinque anni (1983-1988), nel decennio che andava dal 1980 al 1990, era un’enormità. Come disse saggiamente Biff Byford, mentore inconsapevole dei Vanexa, per farcela, a quel tempo, servivano tre ingredienti, in rigoroso ordine di importanza:
Timing
Some Talent
A Lot of Luck
I Vanexa persero il treno giusto, “bucando” due delle tre prerogative sopraccitate, più specificamente la prima (quella veramente fondamentale) e la terza.
Quando finalmente venne pubblicato, Back From The Ruins si trovò un mondo, là fuori, profondamente cambiato. Davvero troppi cinque anni per rimanere dei fedelissimi nei confronti di una sola band. Sul suolo italico lo scettro di ambasciatori dell’heavy metal duro, puro e ortodosso se l’erano meritatamente conteso i gruppi che ai tempi di “Vanexa” veleggiavano a suon di demo, già precedentemente elencati mentre la scena assisteva al gran ritorno dei Death SS e alla conferma della Strana Officina forte dell’accoppiata Ritual (1987) e Rock’N’Roll Prisoners. Nel frattempo altre, agguerrite armate dedite all’HM tradizionale e tradizionalista si erano aggiunte agli eroi di cui sopra: Adramelch, Astaroth, Dark Quarterer, Fil di Ferro, Hallowed, Royal Air Force, Requiem, Rex Inferi, Run After To, Steel Crown, gettando il seme, quindi, per una proposta diversificata, seppur sempre legata al Sacro Fuoco dell’Acciaio nella sua accezione più classica.
Back From The Ruins fece storcere il naso a più di un defender, la dose di cattiveria che era lecito attendersi dai Vanexa arrivò, ma solamente a sprazzi. Il gruppo di Savona optò per un approccio all’heavy metal più ragionato, meno arrembante, edulcorato, licenziando un album di qualità ma che fatalmente non rispondeva alle attese. Paradossalmente, ma sino a un certo punto, il disco risulta molto più ficcante oggi, nel 2022, dopo che la storia della siderurgia applicata alla musica dura ne ha viste e passate di tutti i colori. L’occasione, ghiotta, ghiottissima di ributtarsi su quell’album la fornisce Minotauro Records, la stessa etichetta che lo licenziò nel 1988, per via di una lussuosa reissue in occasione del quarantennale della band (sebbene si siano formati nel 1979) sia in vinile + Cd che in singolo Cd, dotata della copertina che si sarebbe dovuta utilizzare a suo tempo, ossia con la scritta “Vanexa” scolpita fra la roccia sgretolata ai piedi delle tre colonne grigie raffiguranti le rovine.
Riguardo la prima trattasi di una sontuosa confezione cartonata apribile con all’interno il vinile, disponibile nella classica pigmentazione nera o marbled. Poi la custodia di un 45 giri a mo’ di originale alloggio per il Cd di Back From the Ruins con tutti i pezzi originari più cinque live bonus track, il tutto rimasterizzato. Per chiudere, un poster della band dal vivo e un adesivo con il logo della band utilizzabile anche all’esterno (non in carta, per capirci, ma di materiale plastico). Meno prosaicamente, l’edizione con il singolo Cd, oltre a replicare le caratteristiche tecniche di cui sopra del dischetto ottico, si accompagna a un libretto di sei pagine con tutti i testi e delle foto della band dal vivo.
Musicalmente, come ebbi già modo di scrivere su queste stesse pagine web a sfondo nero, Back From The Ruins si apre con una robusta dose di heavy di stampo NWOBHM come “Midnight Wolves”, tanto per chiarire… segue poi “Blood-Money”, dal chorus apprezzabile, invero più Usa oriented che Uk. “Creation” è italian HM anni Ottanta al 100%, uno di quei brani dove il tocco inconfondibile di Roby Merlone fa riconoscere i Vanexa dopo pochi secondi. Segue la non clamorosa “It’s Over” – tanto per usare un eufemismo… – ovvero l’anello debole di Back From the Ruins. Non mi spiego perché i Nostri l’avessero utilizzata come brano simbolo dei Vanexa per il loro video comparso nella Vhs Metallo Italia… boh, mistero! La traccia numero cinque, “Hanged Man”, è stata letteralmente riscoperta con piacere dal sottoscritto. Si tratta di una canzone ipnotica, contenente un gioco perverso fra il basso di Sergio Pagnacco e l’ascia di Merlone, con un “Spino” versione Savatage da incorniciare.
Così ne ricorda la genesi Syl Bottari:
Eravamo molto soddisfatti di quel brano, si staccava dai classici riff e ritmi heavy metal di quel
periodo e ricordo che su una delle lapidi finte che usavamo nei nostri concerti ci scrivemmo sopra “Hanged Man”, aggiungendoci a fianco una forca costruita da noi con un manichino impiccato. Davvero un bel vedere, sul palco!
“Night Rain on the Ruins” è l’highlight del disco, senza ombra alcuna. Siamo in presenza di un affresco di atmosfere d’alta scuola, con il singer al meglio della propria espressione, il tutto condito da maligne tastiere anni Settanta nella seconda parte del brano a cura di Giorgio Pagnacco.
Aggiunge Syl:
‘Tirammo giù’ il testo “Night Rain on the Ruins” per dare continuità ad “Across the Ruins”, presente su “Vanexa” del 1983 mentre il titolo dell’album (Back from the Ruins) fu deciso in chiaro riferimento a tutti i casini che avevamo avuto per riuscire a pubblicarlo.
“We all Will Die” è un’altra mazzata Vanexa al 100%, con Roby identificabile dopo solo due svisate. Si chiude la parte in studio con “Hiroshima”, dove è Syl Bottari a dettare legge da dietro i tamburi per una traccia diretta figlia di quelli che da sempre sono stati i maggiori ispiratori dei Nostri: i Saxon di Biff Byford.
Oltre agli otto brani ufficiali, in coda sono state poste ben cinque canzoni tratte da un concerto dei Vanexa al Teatro Verdi di Genova nel 1984: “Midnight Wolves”, “Rainbow in the Night”, “I Wanna See Fires”, “Metal City Rockers” e “Lost War Sons” che, grazie al paziente lavoro di Marco Melzi, sono passate dalla classica registrazione amatoriale a un suono apprezzabile, che sicuramente rende giustizia alla band di Syl & Sergio.
Questo quanto ricorda Syl:
Le cinque tracce live registrate al Teatro Verdi di Genova conservano a futura memoria l’alto livello che avevamo raggiunto in quel periodo, noi eravamo la vera heavy metal band live, non temevamo confronti con nessuno. Se ci fosse stato ipoteticamente chiesto in quel momento di affrontare un Tour mondiale non avremmo avuto problemi, ci sentivamo pronti e secondo me le bonus live aggiunte in questa edizione lo confermano appieno! Avevamo un gruppo spalla, i “Pig Pink”, erano amici di Spino, ci pagarono per poter suonare con noi, i soldi li usammo per coprire i costi che erano molto alti ma alla fine facemmo il “sold out” quella sera. Nel 1984, per una band tutto sommato underground, richiamare quasi un migliaio di persone non era uno scherzo, erano quasi i numeri che facevano i vari protagonisti della Nwobhm nei loro live dei primi anni Ottanta; ma si parla di un altro mondo, impossibile da replicare oggi…
Stefano “Steven Rich” Ricetti