Recensione: Speciale Black Sabbath: recensione cofanetto Anno Domini 1989-1995

Di Stefano Ricetti - 24 Giugno 2024 - 8:49
Speciale Black Sabbath: recensione cofanetto Anno Domini 1989-1995
Etichetta: BMG
Genere: Heavy 
Anno: 2024
Nazione:
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85

Premesso che:

Ozzy Osbourne è Ozzy Osbourne

Ronnie James Dio Padavona è Ronnie James Dio Padavona

Ian Gillan è Ian Gillan

Glenn Hughes è Glenn Hughes

tutti intoccabili…

anche Tony Martin è Tony Martin!

 

 

La storia dei Black Sabbath con alla voce Ozzy Osbourne e Ronnie James Dio è stata ampiamente documentata nel corso degli anni in numerose occasioni, fra collezioni e raccolte. Sino a oggi, però, nessuna ripresentazione è stata applicata al periodo del gruppo con Tony Martin.

Alla sua militanza come frontman della band è di fatto rivolto il cofanetto Anno Domini 1989-1995, griffato BMG. L’uomo nato a Birmingham il 19 aprile del 1957 ha fornito i propri servigi al gruppo di Tony Iommi in due parentesi temporali diverse: nella seconda metà degli anni Ottanta e a metà anni Novanta. Periodi nei quali i fondatori dell’heavy metal sfornarono cinque album con lui dietro al microfono: The Eternal Idol (1987), Headless Cross (1989), Tyr (1990), Cross Purposes (1994), Forbidden (1995).

Il prodotto ne include quattro e stranamente non ricomprende The Eternal Idol perché, come spiegato recentemente dallo stesso cantante:

i diritti di Eternal Idol appartengono a un’altra casa discografica, quindi non si è potuto fare nulla per poter inserire nel cofanetto anche il disco del mio debutto con i Sabs

Per dovere di cronaca va sottolineato che l’album del 1987 è stato già ristampato e non secoli fa in versione deluxe con a mo’ di bonus un secondo cd contenente le sessioni con un formidabile Ray Gillen dietro al microfono, peccato solo per la resa sonora così così, che non rende onore alle qualità del singer purtroppo scomparso a soli trentaquattro anni nel 1993, a causa dell’Aids.

Tornando al contenuto del cofanetto e brutalizzandone l’essenza esso raggruppa:

 

Headless Cross: l’acme epico dei Black Sabbath. Discone.

Tyr: come sopra ma autoreferenziale. Discone.

Cross Purposes: la cromatura dei due precedenti riuscita il giusto. Nella media.

Forbidden: totalmente superfluo. Trascurabilissimo.

 

Come esplicitato nel comunicato ufficiale di qualche mese fa Anno Domini 1989-1995 racchiude la storia dei Black Sabbath a partire dal 1989, due decenni dopo e successivamente a molteplici cambi di formazione dalla data di fondazione dell’heavy metal. In quel momento il complesso si era totalmente identificato nel  membro fondatore, il chitarrista Tony Iommi, affiancato dal grande Cozy Powell alla batteria (Jeff Beck, Rainbow, Whitesnake), Laurence Cottle al basso, Tony Martin alla voce e il collaboratore di lunga data dei Black Sabbath nonché  tastierista Geoff Nicholls (Quartz, Bandy Legs).

Uno spaccato di storia, dall’89 al ’95, nel quale il solo Iommi garantiva la continuità con l’ingombrante passato dei Black Sabbath, con il buon Tony Martin – un’ugola di grandissimo rispetto, s’intende! nonché secondo cantante più longevo nella storia della band – ad assecondare i tira e molla del Líder Maximo sopra menzionato.

Più in dettaglio Headless Cross uscì nel 1989 tramite I.R.S. Records, primo album di un contratto che prevedeva cinque dischi per quell’etichetta. Da segnalare il prezioso assolo di chitarra di Brian May dei Queen contenuto dentro il pezzo “When Death Calls”. Nel momento in cui iniziò l’Headless Cross Tour, che toccò anche l’Italia – unica data al Rolling Stone di Milano il 28 settembre 1989 con gli Axxis come supporter -, il bassista Neil Murray (Whitesnake, Gary Moore) si unì al gruppo e si cimentò anche nelle registrazioni del successivo Tyr del 1990, nome preso in prestito dal Dio norreno della guerra. Nel 1992, a seguito di un notevole tour mondiale venne richiamato alla base il cantante Ronnie James Dio Padavona che defenestrò Martin, inevitabilmente. Venne pubblicato l’album Dehumanizer con una line-up totalmente rinnovata: al capezzale tornò il figliol prodigo Geezer Butler (basso) e alla batteria si accomodò Vinnie Appice. Due anni dopo altra rivoluzione: Tony Martin insieme con Geoff Nicholls tornarono a far parte dei Black Sabbath e si unirono in studio con Iommi per registrare Cross Purposes del 1994 con una line-up che confermava Butler e alla batteria prese posto Bobby Rondinelli dei Rainbow.

Nel 1995 avvenne il miracolo, si fa per dire, con il ricongiungimento della formazione del periodo Tyr, quindi dentro un’altra volta Powell e Murray per incidere Forbidden, prodotto da Ernie C dei Body Count, la rap-metal band fronteggiata dal rapper/attore/fan dei Sabbath Ice-T, che appare nella canzone “Illusion Of Power”. Permarrà come ultimo disco dei Sabbath per quasi due decenni. Bisognerà attendere sino al 2013, infatti, per l’uscita di 13, inciso con la classic killer line-up quasi al completo, ossia Iommi, Osbourne e Butler con Brad Wilk come ospite alla batteria al posto dell’attesissimo ma non convocato Bill Ward.

Anno Domini esce sia in versione Lp che in versione Cd. Ad accompagnarlo un succoso libretto di 56 pagine contenente la storia del periodo storico abbracciato dal cofanetto con a corollario foto inedite, dichiarazioni dei vari membri, copertine di riviste, poster, flyer e memorabilia assortita. A seguire il poster di Headless Cross di 55 cm x 38 cm e la replica del book del relativo tour del 1989, di 24 pagine.

L’uscita in Cd, oggetto della recensione, contiene tre bonus track: “Cloak & Dagger”, “What’s The Use” e “Loser Gets It All”. Nulla di eclatante ma importanti a livello di completismo  dal momento che alcune uscirono solamente per il mercato giapponese, all’epoca. A racchiudere il tutto un massiccio cartonato rigido di 4,5 centimetri di profondità, 15 di larghezza e 20 di altezza.

Come esplicitato in un foglietto aggiuntivo, il set contiene le versioni rimasterizzate di Headless Cross, Tyr e Cross Purposes, oltre a una nuova versione di Forbidden, remixata appositamente dallo stesso Tony Iommi. Operazioni ben condotte dal momento che la resa sonora dell’intero pacchetto risulta di livello ragguardevole, con Forbidden letteralmente rivitalizzato.

Qui di seguito, per poter assaporare le reazioni in tempo reale che suscitarono i quattro album sopraccitati nel momento in cui vennero pubblicati sono riportate le recensioni dell’epoca, tratte dalle riviste di riferimento e in aggiunta il live report della data tenuta dai Black Sabbath al Palasport di Firenze il 23 maggio del 1994 in compagnia di Cathedral e Godspeed.

Buona lettura

Steven Rich

 

 

Black Sabbath

The Headless Cross

Recensione tratta dalla rivista H/M Nr. 65 del maggio 1989

 

Il patto col diavolo di Tony Iommi funziona ancora. In una girandola di grossi nomi, il marchio Black Sabbath non ha mai perduto il titolo di Grande del rock, e la fedele attesa dei fans è stata ancora una volta puntualmente ricompensata. Oggi i B.S. sono lommi, Tony Martin camaleontico ma eccellente vocalist, nonché ottimo autore di versi satanici e non, e (alleluia!) Cozy Powell che si insedia non da sessionman ma da effettivo componente. Il bassista nel prossimo numero di HM, visto che di questo “The Headless Cross” il vostro cronista ha avuto in anteprima solo un nastrino senza dati né credits. Grazie ai Black Sabbath, dei quali leggerete tra quindici giorni le dichiarazioni in una nostra succulenta intervista.

Dopo gli anni di “Seventh Star”e di “Eternal Idol”, Iommi ha capito che con un cantante nuovo ogni sei mesi e una sezione ritmica di comprimari non si percorre il viale della gloria. Ma un altro ragazzo di Birmingham gli ha tolto le castagne dal fuoco, urlando a pieni polmoni di non essere un bluff. Tony Martin può ricordare altri grandi frontman per timbrica e atteggiamenti vocali, ma ha doti comunque eccezionali, gusto e soprattutto una buona vena di storyteller, oltre che di abile melodista. Cozy Powell ha aggiunto la sua potenza e la sua esperienza alla solita creatività del leader, e il risultato è un album compatto, da scoprire con più ascolti in cui ricompongono i pezzi di un sound che è vero classic metal, eseguito da musicisti veri e con idee limpide e sempre originali, al quale forse manca in qualche brano quel senso di oscura minaccia che da sempre è caratteristico dei Sabbath.

Dopo un macabro monologo di Satana in “The Gates Of Hell”, il lato A si apre con la solida “Headless Cross”, tanto vicina ad un vecchio successo dei Van Halen se non ci fosse la melodia a distinguerla; ma la storia di questo paese in preda alla Peste è la miglior conferma per Tony Martin. “Devil And Daughter” viaggia più veloce, arricchita dalle tastiere e percorsa dalle scariche elettriche di chitarra e voce. Ottima la epica “When Death Calls”, con inizio raffinato e finale in puro stile Sabbath, grande storia di un tizio che si trova ad aleggiare fuori dal suo corpo ormai morto. Meglio ancora il lato B, con una superba “Kill In The Spirit World” che ricorda a tutti la musicalità e la minacciosa potenza di Tony lommi. Completano “Call Of The Wild”, “Black Moon” (ancora uno spettacolo la chitarra), “Nightwing”. Musica della maturità, con l’energia di una gioventù. L’ultimo brivido dei Black Sabbath è sempre il più bello.

G.O.

 

 

Black Sabbath

Tyr

Recensione tratta dalla rivista H/M Nr. 97 del novembre 1990    

 

Con questo nuovo “Tyr”, Tony Iommi e compagni sembrano aver riacquistato quasi pienamente la vena dei giorni più felici e quella consistenza che da qualche anno, effettivamente, tendeva un po’ troppo ad andare e venire. Tra l’altro, accanto a lommi, al vocalist Tony Martin e all’inossidabile esterno Geoff Nicholls, in formazione (nelle speranze più che stabile) oggi vi sono pure Cozy Powell peraltro già presente in “The Headless Cross” e ancora una volta produttore insieme a lommi dell’LP) e Neil Murray, e proprio l’esperienza di tali musicisti, e la loro facilità a trovare subito il giusto affiatamento e di poter suonare bene di tutto, garantisce quelle notevoli emozioni che l’album riesce a dare in quasi tutti i suoi solchi.

Infatti, sebbene l’approccio della band segua le scelte piuttosto convenzionali che lommi ha operato da
qualche anno al fine di ricreare in modo artificiale le condizioni che permisero il rilancio di “Heaven And Hell”, i brani di “Tyr”, pur con qualche sporadico calo, hanno idee, sanno creare immagini nella mente dell’ascoltatore e posseggono quel gusto che ha reso grandi i Sabs. Magari Tony Martin esagera nel ripetere in tutto e per tutto Ronnie James Dio (e a dire il vero in alcuni casi lo supera pure) e anche i suoi testi, in parte ispirati alle saghe nordiche, sono troppo ridondanti (ma, come ha sottolineato lo stesso Martin, non hanno alcun valore simbolico e soprattutto non ammettono di essere strumentalizzati politicamente dai seguaci del superomismo e di organizzazioni collocabili a destra), però quello che più conta è che la vena musicale è ritrovata: “Jerusalem” e “Anno Mundi” sono splendidi, il complesso “The Sabbath Stones” esalta e l’epicità della mini-suite di “Tyr” (i primi tre brani del secondo lato) non è pura retorica.

Forse le glorie e le fughe sperimentali di album quali “Never Say Die”, “Sabotage”, “Sabbath Bloody Sabbath” e “Born Again in “Tyr” sono solo sfiorate, però quest’ultimo lavoro targato Black Sabbath è realmente un nuovo passo sicuro di un’avventura stupenda e che si spera non finisca mai.

M.G.

 

 

Black Sabbath

Cross Purposes

Recensione tratta dalla rivista Flash Nr. 60

Tornano i Black Sabbath con uno stupendo album che vede tra gli autori il singer Tony Martin e il drummer Bobby Rondinelli, oltre che i ‘titolari’ storici Tony Iommi e Geezer Butler. Si parte con “Witness”, brano veloce e potente che già fa presagire per “Cross Purposes” una raffinata evoluzione di quel filone temporaneamente accantonato dopo “Tyr”: i suoni si rivelano subito più distorti che mai, e diverse sono anche le successioni armoniche e gli accordi adottati. Segue “Cross Of Thorns”, che inizia come una toccante ballata per poi tramutarsi in un robusto episodio dark con intermezzi, sfumature ed atmosfere di gran classe.

E così mentre Ronnie Dio non sa che pesci prendere, i nostri ci propongono un’incalzante “Psychotherapy”, che tra riff accattivanti e slow breaks cede il passo a “Virtual Death”, brano rievocativo del vecchio stile Black Sabbath caratterizzato da una stupefacente interpretazione vocale di Martin. “Immaculate Deception”, song dagli imprevedibili cambi di tempo alterna situazioni eteree con avvincenti contorni di tastiere e tappeto di basso a veloci segmenti in cui la batteria e chitarra tengono avvinghiato l’ascoltatore. La B-side si apre con la suggestiva ballad “Dying For Love”, soppiantata da “Back To Eden” in cui la chitarra di Iommi fa letteralmente faville! Sempre a favore di Iommi depone il super-arpeggio iniziale di “The Hand That Rocks The Cradle” che si trasforma presto in uno dei suoi tipici crudeli riffs.

Più scandito “Cardinal Sin”, dove le aperture di armonia sul pre-ritornello sono quelle dei migliori Sabbath. In chiusura “Evil Eye”: maestoso giro iniziale di chitarra… il resto è a dir poco grandioso. Conclusione: disco assolutamente strepitoso! La fenice Black Sabbath è davvero risorta dalle proprie ceneri… e alla grande!!

M.D.

 

 

 

Black Sabbath

Forbidden

Recensione tratta dalla rivista Metal Shock Nr. 194 del giugno 1995

 

PROIBITO L’ASCOLTO

Ricordo di aver fatto uno dei pisolini più clamorosi della storia durante la loro performance al Monsters
Of Rock di tre anni fa, nonostante questo è inevitabile riconoscere il peso della loro esistenza nell’economia della musica rock tout-court degli ultimi cinque lustri. Ma questo non basta a fare una buona recensione del loro nuova opera. Se non altro c’è la bella voce di Tony Martin che rinvigorisce idee compositive spente ormai da lungo tempo. I BS ci somministrano da oltre dieci anni la solita roba, peraltro il ricambio dei musicisti coinvolti nei vari album della band di lommi che ci sono passati davanti agli occhi consiste in una rotazione delle stesse persone, con buona pace di quelli che voterebbero per l’introduzione di sangue fresco nelle anemiche file del gruppo.

Ascoltare i BS oggi corrisponde a mangiare volontariamente la solita minestrina riscaldata e per di più stantia: se sento ancora uno dei riff ipnotici di lommi ripetuti fino allo sfinimento (dell’ascoltatore, s’intende) giuro che mi metto a urlare! Alcuni obietteranno che i BS si sono guadagnati un posto nel gotha del genere con i grandi album di inizio carriera e che hanno tutto il diritto di perpetuare il loro stile, visto che ci sono tante band che cercano di imitarlo.

Se per un verso questo è indiscutibile, è anche vero che non si può continuare a vivere eternamente sugli allori del passato, anche perché, infilando una bella serie di opere mediocri, si potrebbe cadere nel discredito generalizzato. Un lavoro come questo “Forbidden” certo non giova a lommi & Co. che potranno contare sull’acquisto da parte dei fan più oltranzisti. Per il resto del pubblico questo è un album decisamente inutile se non nocivo, all’interno dello stesso segmento opere come quelle dei Trouble sono mille anni luce avanti. Adesso scusatemi ma devo schiacciare un altro pisolo, yawnnn…

A.R.

 

 

Black Sabbath

Live Report tratto dalla rivista Metal Shock Nr. 170 del giugno 1994

BLACK SABBATH/ CATHEDRAL/GODSPEED
Firenze
23 maggio 1994
Palasport

Tappe conclusive dell’esteso tour europeo, le date italiane di Black Sabbath/Cathedral/Godspeed, anche
se quest’ultimi nulla c’entrano col dark’n’doom, si sono rivelate autentico happening per i cultori del genere. D’accordo, i Sabs è da un pezzo che non ci regalano più brani che possano competere con i classici del passato, forse è anche giusto così, visto che di Ozzy ce n’è uno solo, ma è innegabile riconoscere loro la sorprendente capacità nel costruire ancora spettacoli carichi di intensità e feeling: dinosauri del rock come la band di Tony Iommi resistono bene all’usura degli anni, lo show fiorentino ha fugato i dubbi sulla possibile estinzione del four-piece di Birmingham.

Spostati all’ultimo dal piccolo ma accogliente Auditorium Flog al più capiente ma terrificante per l’acustica Palasport, i tre gruppi hanno accolto nel migliore dei modi i circa 2.000 convenuti, desiderosi di omaggiare i padri del dark metal, i loro più autorevoli eredi e cinque individui cresciuti a pane e Pantera. I Godspeed, pur basandosi su discrete qualità tecniche e prepotente voglia d’arrivare, debbono lavorare ancora molto, soprattutto assumere dei connotati musicali più personali che mettano bene in luce le consistenti potenzialità di cui il quintetto dispone. Presentato per intero il repertorio del recente debut album “Ride”, il set del gruppo del New Jersey si è immediatamente perso in un mare di abulia, facendo sprofondare nella noia più catartica, e chi, della band capitanata da Phil Anselmo è sperticato fan, beh, si sarà fatto delle belle risate pensando che i Godspeed ne sono da più parti indicati come i successori diretti. Qualche episodio come “Hate” e “Houston St.”, ha risollevato un po’ la qualità dell’esibizione ormai monotona e cacofonica per colpa della disastrosa acustica per cui il Palasport fiorentino è tristemente famoso; sicuramente una band con grossi mezzi da far maturare, comunque da rivedere più avanti e in altre sedi.

Con i Cathedral il discorso cambia, anche se sono stati quelli maggiormente penalizzati dagli inconvenienti già riportati, visto che la band di Coventry è una delle più belle realtà che l’Inghilterra ultimamente abbia partorito; i tre quarti d’ora di concerto proposti da Lee Dorrian & C. hanno subito messo in chiaro che, se ci fosse in ballo una presunta leadership per quel che riguarda il doom metal, sono proprio i Cathedral i più indicati ad appropriarsene. Alcuni fra i presenti sono stati letteralmente annichiliti dal mortifero, catacombale Cathedral-sound, che prende spunti dai capiscuola inglesi del genere, naturalmente Sabbath in primis, e da sonorità prettamente seventies come riprendere un tracciato spezzato ormai troppo tempo fa.

L’ossessionante muro sonoro della band può senz’altro risultare poco digeribile, ma l’istrionismo del frontman Lee Dorrian è uno dei fattori per cui vale la pena di assistere allo spettacolo del Cathedral; quasi ad evocare chissà quale demone maledetto, lo smilzo singer ha dato vita all’ottima performance, rovesciando sul pubblico le litanie del nuovo mini-Lp “Statik Majik” e riesumando brani dall’incredibile “The Ethereal Mirror”, con la collaborazione del bravissimo guitarist Gerry Jennings e dell’apparato ritmico, che si avvaleva del prestilo di Joe Hesselvander, drummer dei Pentagram. A dire il vero, doveva essere della partita anche il chitarrista Victor Griffin, anch’esso proveniente dai Pentagram, ma è stato spedito a casa nel mezzo della tournée perché totalmente fuori di testa e poco propenso ad amalgamarsi con il resto della formazione. Il rituale si è così ben celebrato grazie alle varie “Нурnos 164”, “Cosmic Funeral” e “Midnight Mountain” per l’ingresso in scena di coloro i quali che hanno iniziato tutto, gli officianti del Sabba Nero.

Finalmente superata la telenovela relativa al ritorno di Mr. Osbourne in formazione e superate le vicissitudini targate Ronnie James Dio, i Sabbath si sono rimessi in carreggiata reclutando di nuovo Tony Martin, sicuramente il singer più vicino agli excursus canori dell’elfo italoamericano, il sottovalutato Bobby Rondinelli alla batteria, realizzando il nuovo, pregevole “Cross Purposes”.

Di dare un calcio al tempi che furono, i nostri non ci pensano proprio, e come potrebbe essere altrimenti, quindi è stata impari la sfida fra brani vecchi e pezzi di recente fattura. Coinvolgenti, come sempre, le riproposizioni dei cavalli di battaglia che hanno fatto la storia del rock, “Iron Man”, “Sabbath Bloody Sabbath”, “War Pigs”, “Paranoid”, l’incredibile “Sympton Of The Universe”, “Children Of The Sea”, “Neon Knights” e molti melting pot, con frattaglie di “Black Sabbath”, il tutto ben coagulato con una manciata di canzoni da “Cross Purposes” e l’inserimento in scaletta di “Headless Cross” e “TV Crimes”.

Consolidata dal tempo passato insieme, la coesione della coppia Butler-Iommi, gli unici fondatori rimasti, ha fatto sfracelli, sviluppando un claustrofobico feedback sul quale agivano abilmente le geometrie del tastierista Geoff Nicholls ed i funambolismi di Rondinelli, Martin, è inutile ripeterlo, è un signor cantante, e non basta la scusa dello scarso carisma per giustificare l’allora suo licenziamento in favore di Dio, le leggi del business voglio i loro martiri. Il singer è stato encomiabile nel suo darci sotto a più non posso nei suoi “fantastic” continua mente dispensati al pubblico e nell’essere il valente fulcro vocale attraverso il quale il setlist dei Sabs ha assunto pregevole dimensione. Nulla di nuovo da quanto finora espresso dalla leggenda inglese, ma il marchio Black Sabbath, ancora oggi, significa sinonimo di professionalità e la certezza di assistere comunque a spettacoli di rara bellezza. Smentitemi, se potete, ma il peso oltre 25 anni di attività si sente tutto.

A.V.

 

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

 

 

 

 

 

 

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