Recensione: Speciale Iron Fist 40Th Anniversary Edition
Iron Fist, Bronze Records, 1982 è ricordato come l’ultimo album dei Motorhead nella loro line-up classica Lemmy Kilmister (basso, voce), “Fast” Eddie Clarke (chitarra), Phil “Philty Animal” Taylor (batteria). E hai voglia a dire che altri componenti successivi sono durati, nella formazione, più di Philty e Fast Eddie… nel cuore e nella mente dei metallari la classic killer line-up permane quella sopraccitata. E così sarà per sempre. Giustamente.
Il 14 maggio del 1982 Clarke abbandonò i Motorhead durante il loro secondo tour americano della storia e da quel momento non fu più la stessa cosa. Per nessuno, nemmeno per lo stesso Fast Eddie.
Iron Fist, quest’anno, compie quarant’anni.
La BMG, per celebrarlo, ha fatto uscire sul mercato la versione expanded, per l’appunto, del quarantennale. Sia in vinile a tre 33 giri che in due Cd. La recensione riguarda quest’ultima realizzazione. Trattasi di un bel digipak massiccio a libretto contenente l’intero album rimasterizzato dai nastri originali seguito da dei demo inediti fino al riempimento dello spazio fisico del primo dischetto ottico. A seguire un secondo Cd con un intero concerto, quello del 18 marzo 1982 all’Apollo di Glasgow, originariamente riprodotto esclusivamente su Radio Clyde. Ad accompagnare il tutto un booklet incorporato alla confezione di ventiquattro pagine con la storia della genesi di Iron Fist e una serie di foto a tema, molte delle quali totalmente inedite. Irresistibile e potentissima quella a due facciate ricomprendente i tre dell’Ave Maria con i visi sporchi armati di Snaggletooth e gilet borchiati.
Riascoltare, oggi, Iron Fist, restituisce delle strane benché piacevoli sensazioni. Anche a chi lo acquistò in tempo reale su vinile, nel 1982, come lo scrivente. Un oceano di musica è stato scritto da allora sino a oggi. Gli stessi Motorhead hanno successivamente pubblicato disconi quali Orgasmatron, 1916, Bastards, solo per enumerarne tre.
Disco dalla copertina invincibile, una fra le più iconiche della storia del Metallo, venne in qualche modo rinnegato dallo stesso Lemmy, nel tempo, che lo definì perfettibile, per usare un eufemismo, fors’anche perché impossibilitato a replicare l’incredibile successo ed eco del predecessore, No Sleep ‘Till Hammersmith, un album dal vivo che eccezionalmente raggiunse il numero uno delle classifiche britanniche.
Tornando al concetto di poco prima: Iron Fist suona fottutamente Motorhead, è sferragliante come ci si aspetta e, oltre all’immensa title track (ci torneremo fra poco) regala gemme quali la magnetica “America”, poi brani di rilievo della portata della tagliente “Heart Of Stone”, “Sex & Outrage” e “(Don’t Need) Religion”, con quest’ultima impreziosita da una prestazione molto profonda di Mr. Lem.
Iron Fist, il pezzo che apre il disco, negli anni ha assunto le tonalità di brano simbolo dei Motorhead, nonostante la fortissima concorrenza di pezzi quali Ace Of Spades e Overkill (che comunque se la giocano, beninteso). Quantomeno in ambito live, essendo fra i più gettonati dalle altre band per ricordare Lemmy e i Motorhead. Canzone che del resto per secoli ha aperto i loro concerti.
L’album dal pugno chiuso ha rappresentato e rappresenta tuttora argomento di discussione fra chi lo considera nettamente inferiore al poderoso trittico Overkill/Bomber/Ace Of Spades e quelli che lo catalogano come un disco perennemente da riscoprire. Uno di quei preziosi tasselli che in una discografia sanno ricavarsi l’interesse postumo, proprio perché misteriosi, controversi, restii a concedersi per intero, a “darsi tutto e subito”, come ad esempio fatto dai suoi illustri predecessori.
A significare come venne accolto Iron Fist real time, nel 1982, qui di seguito due testimonianze dell’epoca. La prima si riferisce alla recensione del disco apparsa, senza firma in calce dell’autore, sulle pagine di Boy Music mentre la seconda, vergata Beppe Riva, vide la luce all’interno della rivista Rockerilla, numero 24 del maggio 1982. Per entrambe sono stati mantenuti i titoli degli articoli originali.
Iron Fist 40Th Anniversary Expanded Edition
MOTORHEAD
IRON FIST
UN CLASSICO DELL’HEAVY METAL
da Boy Music
L’ultimo prodotto dei Motorhead, No Sleep ‘Till Hammersmith, era sicuramente un classico di effetto immediato. Fin dal primo momento in cui la puntina toccava il solco, ci si accorgeva della sua qualità. E infatti con quel disco i Motorhead raggiunsero il numero uno delle classifiche. Era difficile uguagliarlo; ma credo che i Motorhead ce l’abbiano fatta. Iron fist può davvero essere “Il grande album di heavy metal del 1982”.
Non ci sono grosse sorprese nel disco, a parte la considerazione di come la co-produzione (Fast Eddie Clarke e Will Reid Dick) sia la migliore di cui abbia finora goduto il gruppo.
E dove Iron fist davvero sorprende è nella qualità delle composizioni. Lemmy una volta disse che il gruppo non sapeva assolutamente suonare canzoni lente, e la loro ricerca di velocità prosegue spedita. “Speedfreak” è uno dei brani più riusciti del disco; Philty Animai, Taylor e Lemmy lavorano spalla a spalla per creare una sezione ritmica da record. Il brano che intitola l’album presenta Lemmy al massimo della sua ferocia vocale.
Forse è ancora un po’ presto per dirlo, ai primi ascolti, ma ritengo che “Sex and Outrage” sia la migliore canzone dell’album; ha tutte le caratteristiche che fanno dei Motorhead il miglior gruppo heavy metal inglese.
Iron fist conferma la posizione di preminenza dei Motorhead nel regno dell’heavy metal; il gruppo si è attenuto fedelmente alle sue convinzioni musicali, lasciando ad altri i tentativi di giocare con le ballate lente o il rock magniloquente: i Motorhead sanno bene che nell’ambito del rock duro la via più rapida e breve è sempre la migliore. Suonano forte, e suonano veloce: fanno mangiare la polvere a tutti gli altri.
CLASH OF THE TITANS
IRON FIST & IRON BEAST
da Rockerilla
Si preferirebbe non pensare al caso ma credere alla volontà, se non proprio dei protagonisti, del “Grande Signore” dell’Heavy che per scelta superiore decide di contrapporre i due gruppi di eroi per lo scontro finale… ma qui non siamo in un racconto epico o mitologico e di duelli risolutori non se ne parla proprio…
Aprile ha segnato l’uscita contemporanea degli album di due tra i più seguiti capi storici dell’HM, ma non c’è contrasto, non c’è attrito: Motorhead ed Iron Maiden non sono altro che due diverse facce della stessa medaglia, sono la prova che all’interno di un genere pur ben definito e limitato come l’Heavy Metal c’è spazio per suoni ed atmosfere assolutamente divergenti ma allo stesso tempo coinvolgenti come poche altre. Le due band sono giustamente i fenomeni più evidenti dell’Heavy sound britannico ed a modo loro sono entrambe impegnate ad incidere il proprio nome nella storia del rock se pur con “strumenti” diversi.
Motorhead è sinonimo di violenza sonora, di pura potenza che pare passare sopra alla tecnica per puntare decisamente all’impatto di effetto… Motorhead è il muro sonoro per antonomasia. Gli Iron Maiden passeranno alla storia come i “Todd Rundgren” dell’HM: il suono compatto e tagliente che sputano i loro Marshall è studiato e curato nei minimi particolari e nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione…
“Iron Fist” e “The Number of the Beast”, rispettivamente, non ne sono che la conferma.
MOTORHEAD
Iron Fist Bronze
Fra i desertici orizzonti dell’hard inglese, époque 1975, i sonic reducers della sconvolta freakerie underground locale (Deviants, Third World War, Pink Fairies), ossia Hawkwind, riallestivano il dissoluto baccanale elettrico dello “Space (metal) ritual”, perversamente rappresentato su palcoscenico con l’ausilio dell’opulenta ballerina Stacia, registrando l’ultima loro grande manifestazione fonica, “Warrior on the Edge of Time”.
Nel cuore della leggendaria line-up, Dave Brock, il leader di sempre, Simon House, sopravvissuto agli “orrori marini” di High Tide, Mike Moorcock, visionario cantore della science-fiction in chiave rock.
Dall’album viene tratto un singolo, obbrobriosamente intitolato “Kings of Speed” (winners del periodo erano Queen e Thin Lizzy, poco indulgenti verso le spire dell’hard più dilaniante), che recava sul retro il presagio, “Motorhead”, firmato dal pericoloso bassista Lemmy “the Lurch” Kilmister, che già nelle pose fotografiche del precedente “Hall of the Mountain Grill” (’74) ostentava sulla T-Shirt il profetico “Ace of Spades” di recenti fortune; al personaggio era inoltre attribuito uno dei titoli emergenti di quell’incisione, “Lost Johnny”, che già nell’interpretazione vocale, dello stesso Lemmy, e nell’impronta ritmica, racchiudeva dentro di sé i germi, suscettibili di radicali mutazioni, dell’esperienza Motorheadiana.
Sotto il profilo dell’inappuntabilità storica, va detto che la prima radice dei suono pre-Motorhead, risale ad un’era ancor più archeologica, quella del terzo album degli Hawkwind, “Dore-mi Fasol Latido”, ma occorre obbiettivamente riconoscere che l’originale versione di “The Watcher” (opera prima di Lemmy, trasfigurata nella rilettura dei Motorhead sull’album Chiswick d’esordio) era una porzione semi-acustica!
Nel corso della tournée americana dei ’75, la “svolta” decisiva: i destini di Hawkwind e Lemmy divergono bruscamente, ed il bassista viene allontanato dalla formazione perché scoperto dalla dogana canadese in possesso di droga.
Sorprendentemente, l’episodio costituì il preludio del collasso creativo dei Psychedelic Warlords, presto eclissatisi nel “fumo”, mentre il bassista, a torto finora ritenuto una presenza marginale nell’ambito della navicella-madre, avrebbe originato la più rivoluzionaria riconversione intrinsecamente strutturale operata da una rock band nella seconda metà dei seventies:
MOTORHEAD, il boa constrictor dell’heavy metal.
“On Parole”, virtualmente il primo Lp della band, con Larry Wallis, ex UFO/Fairies axeman, ed il drummer Lucas Fox, presto avvicendato da Philty Animal Taylor, è la dimostrazione irrefutabile del ruolo d’assoluto pionierismo esercitato dai Motorhead sulle maggiori forme di wild R’n’R sopraggiungenti.
Le registrazioni risalgono al ’75-’76, ed attestano l’originalità dell’approccio alla ridefinizione del rock duro, in termini estremizzanti anche per il periodo, che avrebbe presto saggiato le scosse del terremoto punk.
Ma i canoni basilari della formula motorheadiana erano già stilati con tangibile anticipo rispetto alle prime notorietà della new wave “oltraggiosa”, al punto che la lezione degli uomini di Overkill risultò addirittura prematura per i tempi, non prodighi di consensi nei loro confronti; ma si diffonderà in proporzioni allarmanti sulle generazioni successive dell’HM e del punk, costrette ad inasprire i toni della loro espressione per non cadere nell’ovvio “replay” dei predecessori.
Riascoltate il titolo-simbolo del power trio londinese, in versione ’76: tutto era già FISSATO: la voce urtante che congiura contro ogni dettame della compostezza formale, il basso-catapulta che sancisce il nuovo “credo” nel Dio-ritmo, privilegiato rispetto agli eccessi solistici del passato, il lacerante della chitarra grondante feedback, il drumming mai così spronato alle soglie del crollo fisico.
L’hard rock della pulsione estrema, ancora scomodo ed irritante come ai tempi dei primi MC5; parlare di “attitudini punk” per i Motorhead può costituire un’allegoria utile alla pubblicizzazione di peculiarità che solo quella vague ha diffuso ad elevati gradi di notorietà, se vogliamo riscuotendo la “simpatia” stessa di Lemmy & Co., ma costituisce un “assurdo storico” se finalizzato all’interpretazione della loro opera come “dipendente” (in qualsiasi modo) dalle alterazioni provocate dal Rotten Roll sul corso della storia rock.
Se oggi l’aggressività rockistica esprime ancora talenti folgoranti, in chiave HM, se i Venom riescono addirittura ad impressionare fino ai limiti del “rigetto” gli hardcore, questo è certamente dovuto al radicale processo ordito dai Motorhead ai danni dell’hard più convenzionale, che è valso loro il rispetto, se non la devozione, di frange di pubblico e di musicisti esterni al loro stesso raggio d’azione.
Nel corso della trilogia-Bronze culminata con l’apoteosi “No Sleep ‘Till Hammersmith”, Motorhead hanno operato la massima focalizzazione di una strategia sonora che li ha imposti come la più importante Dynamite R’n’R band dei tempi moderni.
Particolarmente Fast Eddie, agli esordi lo strumentista meno appariscente, è cresciuto fino all’elaborazione di uno stile nettamente proprio, dotato di acide pigmentazioni psichedeliche; ed oggi non si limita a torturare con brevi, lancinanti assolo il bolide ritmico lanciato ad andature inebrianti, esprimendosi anche in inediti riff mid-tempo sagacemente avvolgenti, che già Pete Brabbs dei Tank ha prontamente assimilato.
Al “Flying Ace” dei Motorhead va senz’altro riconosciuto il merito di aver “reinventato” il ruolo della chitarra solista in un contesto non più finalizzato alla sua “suprema” valorizzazione (non hanno scoperto nulla, i punks americani, introducendo rapidi assolo su strutture concise, e nel loro caso, “effettisticamente” veloci); inoltre Fast Eddie può appuntarsi al petto la stelletta di principale protagonista di Iron Fist da lui prodotto dopo la prima, riuscita esperienza come “supervisore” di “Filth Hounds of Hades” dei Tank.
Iron Fist è l’ennesimo attacco sonoro portato dai “molossi” con la spietata fermezza di sempre (e questo è l’incredibile): ancora saggiamo l’asfissiante attitudine esecutiva (“Iron Fist”, “Heart of Stone”, “Band to Rights”) che è ben altra cosa rispetto all’illusione di rapidità semplicisticamente ricostruita altrove, con il basso di Lemmy suonato in accordi per garantire un surplus d’energia alla devastante trazione ritmica della band. Ma accanto all’ormai tradizionale HM dell’eccesso che è il sigillo emblematico del Motorheadbanging style, ecco i nuovi, infernali veicoli mid-tempo dell’arrembaggio decelerato, come la superba “Loser” ed “America”, non meno istericamente omicide della produzione abituale.
Lemmy canta sarcasticamente “The Doctor” e non si può negare che “l’operazione” ancora una volta è stata coronata dal successo, la diagnosi sulle “cadute di tensione” ciclicamente lamentate dall’hard è esatta, ed il presunto “old game” riacquista l’intensità esuberante dei suoi migliori ludi.
Se Conan il barbaro fosse stato un fighter dei giorni nostri, avrebbe certamente scelto Iron Fist come soundtrack delle proprie gesta.
Motorhead: Power is their essence!
Stefano “Steven Rich” Ricetti