Recensione: Specs of Pictures Burnt Beyond
Quattro anni per “A Fragile Mind”, un anno per “Specs of Pictures Burnt Beyond”: come dire, se avessimo dato retta alla statistica, questo disco avrebbe dovuto essere un flop. Se ci è voluto quasi un lustro per dar vita ad un platter che ha deluso non pochi commentatori per la piattezza e una certa fredda scontatezza del songwriting, quante possibilità avreste dato ad un lavoro che ha invece richiesto un solo anno di gestazione? E’ stato bello, tutti a casa. E invece no: gli Zero Hour si rimboccano le maniche, rivedono e correggono la tediosità di certi recenti passaggi, assoldano il nuovo fenomeno canoro del prog-metal (Chris Salinas, ex Power of Omens) e tornano in tutta fretta con quello che sanno fare meglio allontanandosi (ma non troppo) dal controverso predecessore. Tutto oro? No, il nuovo disco inizialmente entusiasma (ed anche il sottoscritto si era profuso in toni trionfalistici prima di ascolti più approfonditi), ma non è un capolavoro epocale: ha piuttosto il grande merito di recuperare i caratteri tipici di una band che aveva stupito nel 2001 (ai tempi del picco compositivo “The Towers of Avarice”), innaffiando nuovamente quelle radici che hanno visto il primo germoglio nei Fates Warning era “No Exit”/“Perfect Simmetry” e il cui albero genealogico annovera certe “pazze” intuizioni ritmico/armoniche di band come Sieges Even e Cynic (e più di recente Spiral Architect), qui rimpinguandole -senza perdere in personalità- con una dose di accessibile “complessa melodia” che non era troppo nota alla band (e in questo risulta determinante il nuovo corpulento singer).
E così l’opener “Face the Fear” si presenta subito con i migliori ingredienti già conosciuti: riffing immediatamente incalzante e basato su scale ossessive composte ed eseguite -spesso all’unisono- dalla chitarra e dal basso dei fratelli Jasun e Troy Tipton, con la batteria di Mike Guy libera di imperversare in fantasia nei confini ora delineati dai due twins–leaders; poi ben presto la novità, un lontano acuto, con l’epigono di Geoff Tate e Ray Alder che si affretta a mostrare le sue doti tecniche e a far pregustare le maggiori possibilità sul piano melodico di cui ora la band può avvalersi. Ciò avviene soprattutto nelle atmosfere rarefatte che fanno capolino nella fase centrale del brano, con quei momenti arpeggiati in effetto chorus (fin troppo semplificati e poco ricercati, in verità…) che creano un brusco ed interessante stacco (nel quale il riferimento ai Fates Warning più riflessivi appare netto). Le potenzialità del nuovo cantante non paiono comunque ancora sfruttate al 100%: la successiva “The Falcon’s Cry”, strutturalmente molto simile alla traccia d’apertura, si avvicina a ciò che intendo, inquadrando un Salinas in perfetta simbiosi con gli strumentisti, fra acuti micidiali (“Something’s going to die!”), parti scandite sottovoce (“I’m so cold”) e tonalità super-basse (“I fall down to my knees in awe”), mentre nella conclusiva “Evidence of the Unseen” (non a caso già in anteprima nel sito ufficiale) ciò ha il suo compiuto approdo, con linee vocali a tratti persino travolgenti (si veda “You are…safe!” o “Pushed by last…but what is lurking?”) e, in parallelo, un brillante crescendo di intensità impartito da intuizioni molto varie sia a livello ritmico che strumentale (in sintesi: basso e chitarra un po’ meno strettamente “gemelli” e -a tratti- più indipendenti nell’ambito della scala armonica creata; un breve richiamo jazz acustico all’inizio; nell’intro e nel finale fa inoltre comparsa il suono tribale di un didgeridoo). Il volto allucinato dei riffs vede la sua esasperazione nella parte finale di quest’ultima (sul recitato di Salinas che chiude ansimando “…you are the evidence of the unseen”), ma ancor prima nella title-track, che è anche l’unico brano in cui l’aggressività non si concede ai passaggi rilassati di cui si è detto sopra (peraltro un po’ aumentandone la sensazione esteriore di monotonia). Ma “Specs…” è anche l’ultimo vero e proprio rappresentante del sound “alla Zero Hour”, dato che le restanti tre tracce si risolvono in un interludio di 2 minuti fatto di arpeggi e soli armonici a due chitarre sovraincise (“Embrace”, che “abbraccia” -facendone il verso- alcune linee di basso della track 2, anticipando un tratto di assolo della track 4), nell’autoreferenziale “Zero Hour” (nient’altro che una coda -inizialmente acustica- della title-track) e nel lento “I Am Here”, dalla struttura povera e che si segnala soprattutto per l‘interpretazione -più che mai espressiva- di Salinas (non riuscendo nel complesso ad avvicinare in intensità la storica ‘rychiana “Someone Else?”, il cui minimalismo acustico appare quale riferimento più immediato).
Sono passati soli 43 minuti, la carne al fuoco non è moltissima, ma il menu presentato è il piatto della casa e la pietanza pare in grado di accontentare i palati esigenti del versante più sperimentale della base prog-fans. Certo, oggi con un Salinas in più (in grado anche di “pilotare” verso una maggior varietà a livello di riffs, talvolta invero un po’ ripetitivi) la band sembra disporre di un potenziale evolutivo imprevedibile, senza dover rinunciare ad una personalità ormai acquisita. La strada all’orizzonte appare dunque scorrevole e meno dissestata di quanto il vicino passato poteva far temere: nell’attesa di un possibile futuro da primattori, possiamo per ora accogliere con rinnovata fiducia il rientro in carreggiata di uno dei prog-act più interessanti del panorama recente.
Alessandro Marcellan “poeta73”
Tracklist:
1. Face the Fear 8:58
2. The Falcon’s Cry 8:02
3. Embrace 2:24
4. Specs of Pictures Burnt Beyond 7:35
5. Zero Hour 2:25
6. I Am Here 5:02
7. Evidence of the Unseen 8:42