Recensione: Spectres
Nel 1977, sulla scia del grandissimo successo (rispetto agli album precedenti) di “Don’t Fear the Reaper”, (il singolo era entrato al numero 12 delle Billboard) e volendo anche di tutto “Agents of Fortune”, i Blue Oyster Cult ritornano in scena ad un solo anno dal loro ultimo lavoro con la sesta fatica (quinta in studio più il live “On your Feet, on your Knees”). “Spectres”, questo il titolo dell’album, non fa altro che confermare lo stato di grazia di una band che, malgrado avesse cambiato recentemente stile musicale (i componimenti su Agents of Fortune erano più immediati e molto meno psicologici di quelli degli esordi), si era mantenuta su livelli eccellenti in quanto a forma e decisamente crescenti in quanto a popolarità verso le masse (tanto da introdurre i primi Laser Show, che avranno però ripercussioni economiche, e riempimenti di stadi). Spettri, come già detto poco sopra, prima della divagazione, conferma lo stato di grazia che la band aveva raggiunto nel corso degli anni, e nonostante presenti delle somiglianze di fondo (e pure a galla va) col suo predecessore ha delle peculiarità ben particolari. Se infatti da un lato questo Spectres si possa considerare appieno tra i dischi più commerciali della band (lui e i due singoli che lo accompagnarono), dall’altro lato Lanier, Bloom, “Buck Dharma” Roeser e i due Bouchard tentano, in buona parte riuscendoci, a ricreare a tratti le trame oscure e cariche di inquietitudine che avevano caratterizzato la splendida trilogia iniziale dei Cult. Più che puntare però al misticismo i Blue Oyster la buttano sull’horrorifico, come andremo presto a vedere. Tecnicamente stiamo parlando di un prodotto decisamente sopra le righe : gli strumenti si fondono alla perfezione, miscelando in maniera che definirei più unica che rara melodie dolcissime a riff di una pesantezza e opprimenza a tratti più che rimarcabile. Nessun membro del quintetto sfigura rispetto agli altri ma anzi vi si compatta, come in una vera squadra costruita per vincere. La sintesi dell’essenza stessa di Spectres potrebbe essere racchiusa nell’opener, la mastodontica “Godzilla”, che a suo tempo non fu troppo lontana, come impatto sul pubblico (nonostante non fosse entrata nelle charts a livello di singolo), dalla monolitica “Dont’ Fear the Reaper”. Abbiamo infatti un riff mid-tempato a dir poco doomeggiante e asfissiante, dotato però di un fascino assurdo, che si miscela a virtuosismi chitarristici sullo sfondo e a un refrain piuttosto aperto ed orecchiabile (il lato appunto commerciale della song). L’impatto di Godzilla è immediato, troppo bella e particolare per non lasciare il segno. Totale cambio di atmosfere quando un coro che non sarebbe stato affatto male in qualche chiesetta intona l’intoduzione della vivace “Golden Age of Leather”. Canzone medio-veloce e scanzonatissima, Golden age fa presto a far sparire le inquietitudini della track precedente, e il tutto passa nelle mani dei chitarristi (ancora una volta magici) e di uno spettacolare Joe Bouchard al basso, vero elemento trainante. Come se non bastasse la vivacità del riff, la band mette nel calderone un grande numero di cambi di tempo, che rendono Golden Age of Leather ancora più bella ed imprevedibile (io personalmente adoro la seconda parte, quando i coretti sono in maggior numero). Un bell’arpeggio e una voce molto espressiva ci portano subito nell’intimo di “Death Valley Nights”, canzone dalla lirica molto introversa e dalla musica sì dolce, ma sotto la quale batte un cuore d’acciaio. La tristezza, anzi direi la malinconia che sprigiona questa ennesima perla vale da sola come investitura, investitura che il bellissimo assolo conferma e che un refrain forse un po’ troppo scontato non riesce neppure a scalfire. Visto che le tastiere non si sono sentite moltissimo (fino ad ora) ci pensa il buon Lanier a portarle a protagoniste, con l’intro di “Searchin’ for Celine”, componimento piuttosto semplice, ben pensato, di impatto, ma che però a mio avviso non c’entra molto col resto del disco. Intendiamoci, il tutto è piuttosto particolare e “messo giù” bene, ma dopo i 3 pezzi precedenti sicuramente un’ascoltatore poco rodato si sarebbe aspettato tutto tranne che quello che sente. Non la vedo come una nota stonata, sicuramente però come un qualcosa che non mi convince appieno, sebbene il brano preso singolarmente valga sicuramente il prezzo del biglietto (quindi forse meglio godersi il singolo). Si torna “sulla retta via” con la eccellente “Fireworks”, che ricorda molto, moltissimo, “Don’t Fear the Reaper”. La canzone è praticamente perfetta, anche se non raggiunge nemmeno lei la magistralità della sua “antenata”, comunque il solo fatto che la ricordi è motivo di qualità assoluta. Musicalmente non è un qualcosa di particolarmente difficile, ma è assemblata in modo tale da non risultare mai noiosa, e invoglia anzi l’utente a sentirla a ripetizione, più e più volte (bellissimi e spensierati i giochi della lead guitar). A spezzare cotanto romanticismo, che in fondo aveva caratterizzato tutto l’album, ci pensa la dura e rocciosa “R.U Reacy 2 Rock”, che già dal nome fa capire tutto. Una buonissima tastiera si alterna ad un riff bello massiccio (anche se mai sopra le righe), il quale, a sua volta, accompagna un cantato piuttosto sfacciato ed aggressivo che però ogni tanto si smorza, lasciando il tempo di riprendersi. Non freintendetemi, non stiamo parlando di chissa quale sfuriata strumentale, siamo pur sempre nel 1977, però la carica è tutta lì da sentire. Provate ora ad assimilare “Celestial the Queen”, togliete le parole “celestial the” e vedrete chi, a grandi linee, mi viene in mente dopo questo pezzo (stilisticamente). Battute a parte, Celestial the Queen mi ricorda davvero i primi lavori della regina, quelli dove il piano (Lanier forever) e il basso si complementano alla perfezione, supportati da una magnifica chitarra. A favore di questa piccola perla vanno sicuramente i cori e il cantato di Bloom, che forse qui raggiunge (pareggiando con quello di “Goin’ through the Motions”) il suo massimo assoluto sul platter. E sentiamola dunque “Goin…”, così ben scandita dai battiti di mani, che incarnano una vera e propria festa. Anche qui, come prima, basso e keyboards hanno un ruolo a dir poco fondamentale, e mettono in ombra la chitarra, che fa quasi da contorno, senza però che se ne avverta la mancanza (e ce ne vuole). Dopo tanto brio e tanto romanticismo facciamo 2 passi indietro e torniamo alle prime righe della rece, quando parlavo di un lato horroristico. Il momento nel quale esso si manifesta è quello delle ultime due song, perfettamente associabili fra di loro, le stregate (non mi viene altro termine in mente) “I love the Night” e “Nosferatu”, che, in un mix unico di melodie ed emozioni, riescono a ricreare perfettamente il dolore, la cattiveria, l’osceno contrappasso e il goticismo del mito del vampiro, come io non ho sentito fare in nessun altro testo o componimento musicale. Non sto a descrivere le song perché sarebbe futile, invito però tutti a sentirle con attenzione, poiché trattasi di brani secondo me con pochi eguali nella storia dei Blue Oyster Cult, brani che anche l’irripetibile Astronomy (per rimanere in tema di lenti) deve guardare con occhi di riguardo. Ovviamente il consiglio non si limita solo a queste due gemme, ma a tutto un prodotto che, se non il più bello (qui tanti altri dischi dei Boc vorrebbero dire la loro, nessuno però toglie a Spectres la palma di mio disco preferito dei cultisti), sta sicuramente nell’elitè dei lavori di una delle più singolari e seminali Hard Rock band della storia. E se vi pare poco questo….
Riccardo “Abbadon” Mezzera
1) Godzilla
2) Golden age of Leather
3) Death Valley Nights
4) Searchin’ for Celine
5) Fireworks
6) R.U Ready 2 Rock
7) Celestial the Queen
8) Goin’ through the Motions
9) I love the Night
10) Nosferatu