Recensione: SpellBound
I Tygers Of Pan Tang sono una delle tante gloriose band della NWOBHM che, dopo aver riscosso tanta fama, a causa di errori lasciano il treno del successo e rimangono gruppi vivi e cari nei cuori degli appasionati di quel true British Metal che tanto impazzava nei primi anni 80. In seguito al primo punkeggiante capolavoro “Wild Catz”, il gruppo si trova di fronte ad un leggero cambio di line up: via il leggendario cantante Jess Cox (che si imbarcherà in una sfortunata carriera da solista insieme all’ ex Blitzkrieg Mick Procter ed altri musicisti) in favore di un nettamente superiore Jon Deverill (Cox a quei tempi reggeva con molta fatica un concerto di un ora e mezza) e l’aggiunta di un secondo chitarrista, che estese il gruppo da quattro a cinque componenti. Il secondo axeman era un ragazzino che suonava agli Streetfighter, ed aveva un talento così straordinario che gli venne relegato il ruolo di lead guitarist al posto del comunque bravo Rob Weir, il suo nome era John Sykes; penso che se amate le sei corde sappiate vita, morte e miracoli di questo ragazzino prodigio. Spellbound irrompe quindi nel mondo dell’heavy metal nel 1981 con questa formazione: Jon Deverill (Voce), John Sykes (Chitarra solista), Rob Weir (Chitarra ritmica e qualche parte solista), Brian “Big” Dick (Batteria) e Rocky (Basso). L’opener del disco è un vero fulmine di puro metallo che travolge l’ascoltatore, Gangland (da non confondere con l’omonima dei Maiden, decisamente mediocre) è sicuramente uno dei brani migliori, e contiene tutti gli stilemi di un pezzo NWOBHM perfetto, energia, velocità, chitarre grezze e potenti che macinano riffs, basso e batteria in ottima forma ed un Deverill veramente ispirato che dimostra al mondo di essere un grandissimo cantante. Decisamente killer l’assolo di Sykes, che metterà a serio reschio le vostre vertebre e la vostra testa intenta ad headbangare, un brano veramente senza tempo. la successiva, Take It, ha uno stile leggermente differente dal classico raw and wild dell’opener, rimane comunque un grandissimo pezzo metallico ed una live song obbligatoria. Il massimo però si raggiunge nella parte centrale dove le due chitarre duellano nella più classica tradizione Priestiana. Sin da qui possiamo capire come si è perfettamente rimediato al difetto principale del precedente album, ovvero la scarsa varietà, qui c’è moltissima varietà di pezzi e di stili, e dalla vena creativa di Rob Weir se unita a quella di Sykes può nascere un’opera composta così bene come questa. Minotaur è solo un inutile intro al capolavoro del disco, Hellbound, riff semplice ma mai banale, chitarre sparate a mille (paurosi i giri di Sykes), batteria pulsante, basso che tempesta la canzone, voce che raggiunge altezze vertigionose, ecco un pezzo perfettamente British metal! Questa gemma possiede un ritornello estremamente catchy ed una carica metallica paragonabile a venti incudini che travolgono chi ascolta. Giusto per ribadire quanto detto prima sulla varietà, e per dare un pizzico di magia, ecco arrivare Mirror Mirror, una ballad sinceramente favolosa, che ha fatto e continua a fare scuola. Poetica, calma, in grado di mettere i brividi, senza bisogno di stupidi sintetizzatori o finte orchestrazioni (come siamo abituati oggi con questo tipo di brani). Ma è giunto il momento di un altra perla dell’ LP, Silver And Gold, che riesce a coinciliare un pezzo di fiammante heavy metal dal sapore vagamente priestiano con un ritornello epico e cantato splendidamente, ottima esibizione da parte di tutto i musicisti, ma prova maiuscola per Jon Deverill, probabilmente la canzone dell’album in cui canta meglio, con la sua voce perfettamente malleabile, che passa da urlacci furiosi ad una voce soave. Un vero e proprio classico inno del quintetto inglese è Tyger Bay (il titolo prende spunto dal nome del gruppo e da quello della loro città di origine, Whitley Bay, come per dire che è la città dei Tygers) puro metallo come si forgiava una volta per deliziare i British bangers, può deliziare oggi anche noi italiani affamati di questa stupenda musica. Da applausi l’assolo di Sykes (anche se un pò corto), tra i migliori insieme a quello di Gangland e di Take It. Eccoci giunti al pezzo forse più deboluccio, The Story So Far, molto hard rock, ruffiana e dal marchio prettamente americano, rimane un ottima canzone (specialmente per la prova vocale) ma viene leggermente schiacciata dal resto del disco. con BlackJack torniamo a canoni più cari ai tigrotti del Pan Tang, una fast song che reca il marchio HM scritto a caratteri di fuoco e che contiene, secondo la mia modesta opinione, il migliore riff del disco; decisamente staordinaria, un classicone della discografia delle Tigri. La closer è Don’t Stop By, che inizia con un riff leggero molto d’atmosfera, per poi sfociare in un fantastico brano hard rock che alterna momenti puramente rocciosi ad altri acustici e rilassanti; qui il giovane John ci regala un assolo originalissimo e carico di feeling e Brian Dick la migliore prestazione alla batteria.
l’ LP originale finisce qui nel migliore dei modi, invece il remaster contiene tre bonus track. La prima, All Or Nothing ha un riff molto rock and roll ed uno stile che ricorda molto i Tygers del precedente disco, ottimo il ritornello “festaiolo” che si stampa nel nostro cervello. Don’t Give A Damn è un bel pezzo caratterizzato dal classico sound del gruppo, divertente da ascoltare ma niente più. per Don’t Take Nothing vale il discorso fatto per All Or Nothing, da notare la produzione (sicuramente antecedente a quella dell’album) molto più grezza e metallica. In conclusione, io posiziono questo disco fra i migliori cinque di tutto il movimento New Wave Of British Heavy Metal, i musicisti sono tutti ad un ottimo livello tecnico (eccezion fatta per Sykes, già un fenomeno), la musica è infuocata e selvaggia, ma sa essere anche melodica e pacata. Insomma un disco per tutti i gusti, che accomuna amanti dell’hard rock a headbangers scalmanati, un vero capolavoro di un epoca che vive ancora negli animi degli appasionati.