Recensione: Spellbound
Il progetto Sadist prese vita a Genova nel 1991, da un’idea del chitarrista Tommy Talamanca e del batterista Marco ‘Peso’ Pesenti, già nei Necrodeath. L’intento fu quello di sperimentare qualcosa di nuovo, unendo la forza disperata del Death Metal con inserti derivanti dal Progressive Rock di gruppi quali Genesis, King Crimson e la nostrana PFM (acronimo di Premiata Forneria Marconi).
Il risultato di un così difficile lavoro, ossia amalgamare due generi praticamente uno l’opposto dell’altro, fu positivo ed il gruppo influenzò parecchio il movimento internazionale di quegli anni, producendo album di alto livello quali quello d’esordio ‘Above the Light’ del 1993 e ‘Tribe’ del 1995.
Nel 2000 il gruppo, dopo aver subito alcuni cambi di lineup, tra le quali l’uscita di ‘Peso’, e fatto uscire l’album ‘Lego’, si sciolse per riunirsi, senza ulteriori modifiche, nel 2005 pubblicando l’album ‘Sadist’.
Nei successivi dieci anni videro la luce altri due full-length: ‘Season in Silence’ del 2010 e ‘Hyaena’ del 2015.
Ora è la volta di ‘Spellbound’, platter numero otto, la cui uscita è prevista per il 9 novembre 2018 attraverso la label Scarlet Records.
Il nuovo progetto discografico è parecchio ambizioso avendo un unico argomento che lega tutte le tracce: la vita ed il lavoro del grande Alfred Hitchcock (1899-1980), maestro del brivido, portando, su una matrice sonora, le stesse atmosfere sinistre ed ansiogene dei suoi film, cosa alquanto difficile, se si pensa all’alta suspense che il noto regista riusciva a creare utilizzando elementi surreali e particolari.
I Sadist ottengono il risultato voluto attraverso un songwriting di forte impatto sonoro, atto a mantenere viva l’angoscia di chi ascolta sia durante le sadiche sezioni Death sia durante le insinuanti parti Progressive.
Per questo motivo l’album mantiene un andamento cupo e pesante, coerentemente in linea con il pensiero di Hitchcock, senza snaturare l’identità Metal del quartetto ligure.
Il platter è composto da undici tracce aventi, ognuna, come tema uno dei film del grande maestro che, in molte pellicole, trasportava anche elementi della propria vita.
L’inizio è affidato a ‘39 Steps’ (da ‘Il club dei 39’, thriller del 1935 basato su un libro di John Buchan). Il rumore prodotto da pavimenti o porte che scricchiolano sinistramente alza subito il livello dell’ansia e fa entrare l’ascoltatore nel mondo del brivido. Un pianoforte maligno e ripetitivo, al quale si accompagnano delle orchestrazioni cupe, rende il tutto più intenso, generando un pauroso quanto magnetico senso d’aspettativa.
Segue ‘The Birds’ (dal superclassico ‘Gli uccelli’ del 1963, un Thriller con andamento horror), altro brano greve con sezioni orchestrali che si alternano a parti Death di grandi intensità emotiva.
La terza traccia è la title-track, ‘Spellbound’ (‘Io ti salverò’, giallo del 1945). Qui i Sadist si addentrano nella mente di Hitchcock utilizzando la malvagità del pianoforte unita ad una tetra parte di basso e di synth. Le strofe che da growl diventano scream innescano la paura, che rimane nel cuore per tutta la durata del pezzo fino a creare un senso di vertigine.
Tali sensazioni permangono anche ascoltando ‘Rear Window’ (dal thriller ‘La finestra sul cortile’, capolavoro del 1954), il cui assolo di chitarra dà comunque un attimo di pausa per riprendere a respirare.
Proseguendo l’ascolto si arriva a ‘Bloody Bates’ (dall’impareggiabile ‘Psyco’ del 1960, basato su una storia vera, al quale sono seguiti sequel, remake ed un’infinita serie di film su alberghi maledetti). In questo caso l’uso di tastiere elettroniche semi dolci fa accrescere il sospetto che qualcosa di terribile sta per accadere, proprio come succede nel film, sospetto che viene confermato dalle strofe Death e dal pauroso refrain.
I Sadist si dedicano poi a ‘Notorius’ (‘L’amante perduta’ del 1946, un thriller drammatico che esalta una delle caratteristiche principali delle storie del regista: la presenza di un elemento secondario, in questo caso delle bottiglie che contengono uranio, da utilizzare come perno su cui far muovere la trama vera e propria del film), un pezzo strumentale che esalta la vena Progressive del combo, oltre alle capacità artistiche dei singoli elementi, un po’ fuori dagli schemi dell’album, generando un atmosfera più carica di luce che di buio.
Superata la metà dell’opera si giunge a ‘Stage Fright’ (‘Paura in palcoscenico’, thriller del 1950), straziante, durissima e veloce, contrastata dall’assolo melodico della chitarra.
Si continua con ‘I’m the Man Who Knew Too Much’ (‘L’uomo che sapeva troppo’ film di spionaggio del 1934 che ebbe un grande successo), brano pesantissimo quanto incisivo e si continua con ‘Frenzy’ (Thriller del 1972 allacciato ad ricordi dell’infanzia di Hitchcock), più veloce, il refrain cantato in Death va in contrasto con la chitarra melodica mentre l’assolo è sostenuto dai toni bassi del pianoforte.
L’ultimo brano è ‘The Mountain Eagle’ (‘L’aquila della montagna’, film muto drammatico del 1926), più duro rispetto ai precedenti con una forte manifestazione della cattiveria.
Chiude l’album il breve outro strumentale ‘Downhill’, che lascia, come fa ogni buon film da brivido, un punto di domanda su quello che deve ancora accadere.
Un bel ritorno quello dei Sadist, che presentano un lavoro completo, interessante ed importante, con la buona l’idea di dedicarlo ad un maestro del cinema che tanto ha avuto in comune con i contenuti del Death Metal. Bravi!!!