Recensione: Spellbound
Prima che il sipario si apra sull’ultimo lavoro del celebre chitarrista svedese, in attesa di premere il fatidico tasto ‘play’ ed essere travolti dal solito uragano di note, concediamo una rapida occhiata alla cover di questo “Spellbound”: in essa troviamo già, cristallizzati in un’immagine, tutti gli elementi che andranno a comporre questa recensione.
Al centro della scena, il nostro eroe, Lars Johan Yngve Lannerbäck, in arte Yngwie Malmsteen, rampante come il cavallino della sua amata Ferrari, in posa autocelebrativa. Al centro dell’immagine una luce sferzante sembra essere emanata dalla Stratocaster del virtuoso, la cui energia genera fulmini e scariche elettriche. A fare da contorno, un tripudio di colori: un contrasto voluto tra le tinte fredde del mare di cristallo sottostante, ove leggiamo il titolo dell’album, e quelle calde dei palazzi sulla sinistra e delle montagne sulla destra, sovrastati a loro volta da quelle che sembrano esplosioni. In alto troneggia il moniker “Yngwie J. Malmsteen – Rising Force” che entra sulla scena con un effetto un po’ retrò; sullo sfondo un cielo nero, carico di stelle.
Ad essere proprio onesti, bisogna ammettere che la foto di Yngwie non sia proprio recentissima, e che, fuor di metafora, lo svedese sia arrivato al diciottesimo studio album e si stia avvicinando ai cinquant’anni di età, che compirà a giugno 2013.
Al di là della mera ostentazione di sé e del proprio ego, attraverso un pandemonio di colori, di discutibili effetti al photoshop (in copertina) o di note, arpeggi e scale (nell’album), traspare l’immagine ed il suono di un artista decisamente troppo legato a sé stesso, alla sua superba volontà di permanere al centro della scena, sontuoso ai limiti/oltre i limiti del ridondante. Mari cristallini, montagne, esplosioni e tutto ciò che è barocco e saettante rimane, colpisce, si impone con tutta l’innegabile presenza e maestria di un talento per certi versi impareggiabile; ma basta una rapida occhiata, un singolo ascolto, per avere immediatamente la sensazione di qualcosa di già visto e sentito. Nihil novi sub sole. Se ne avete già abbastanza della proposta musicale di Malmsteen, la vostra lettura può terminare qui, all’immagine frontale dell’album, appoggiato sullo scaffale del negozio. In caso contrario, entriamo nel vivo dell’ascolto.
La prima, e probabilmente unica novità è che… Malmsteen canta Malmsteen. Abbandonato all’ultimo momento il povero Tim “Ripper” Owens degli ultimi due full-length, “Relentless” (2010) e “Perpetual Flame” (2008), il cantante non è stato rimpiazzato. Sarà la crisi economica che si fa sentire, soprattutto per uno che colleziona Ferrari ed orologi Rolex, ma sembra che Yngwie abbia deciso di fare tutto da sé: dalla lead guitar alla voce fino alla solita produzione. Del resto, nessun cantante è mai sopravvissuto per più di due album assieme al talento svedese. La domanda paradossale ora potrebbe essere se Malmsteen riuscirà a sopravvivere sé stesso.
Per chi ama lo stile strumentale c’è una buona notizia: i pezzi cantati, tra l’altro discretamente, col suo vocione nasale, sono solo tre: “Repent”, “Poisoned Mind” e “Let’s Sleeping Dogs Lie”. Peccato che i primi due siano parzialmente rovinati da una produzione discutibile e da un tappeto monotono e ripetitivo di batteria che finisce per divorare la voce e con essa la curiosità dell’ascoltatore. Discorso opposto ovviamente per le parti strumentali degli stessi, cristalline e notevoli. “Let’s Sleeping Dogs Lie” è invece un pezzo dalle sonorità blues decisamente riuscito. Questo brano ci porta a considerare uno dei maggiori pregi di quest’album: la varietà della proposta musicale.
“Spellbound” spazia con grande agilità tecnica dalle sonorità power metal alle influenze neoclassiche, dal culto di Jimi Hendrix al blues – o, almeno, blues inteso malmsteenianamente, con scale arricchite suonate a velocità impossibili. Lo stesso genere che caratterizza un altro brano più che riuscito dell’album, forse il migliore tra quelli proposti da “Spellbound”: “Iron Blues”.
A rafforzare l’idea di varietà di generi e proposte nell’album è la discontinuità di minutaggio dei brani. La più breve, “Turbo Amadeus”, riprende palesemente la Sinfonia n.25 in sol minore di Mozart. Sarà colpa del turbo, ma all’ascolto la sensazione di un coitus interruptus si fa forte e grida vendetta, a fronte di un misero minuto e 12 secondi di puro metal neoclassico d’autore, forse pensata esclusivamente per introdurre “From a Thousand Cuts”. Anche “Elecric Duet” è un pezzo decisamente breve che supera a malapena il minuto e mezzo; più un filler che un’intro, dal sapore neoclassico. Niente batteria, solo un duetto di chitarre ed una tastiera. Segue “Nasca Lines”, certamente ispirato ai celebri geoglifi di Nazsca, in Perù, che oltre al solito, notevole shredding è impreziosito dalle chitarre acustiche e dal ruolo della batteria che ne demarcano l’area tematica con grande atmosfera di curiosità e mistero.
Tra i brani invece più lunghi ed articolati degni di nota: “Majestic 12 Suite 1,2 & 3” strizza l’occhio nell’attacco al grande classico “Far Beyond the Sun” e richiama alle funamboliche sonorità di “Trilogy Suite”. Anche “God of War” si impone con grande forza e capacità tecnica dopo una breve intro acustica, inframezzata dal più lento e scandito drumming di una marcia militare, supportata dalla presenza di cori.
Chiudiamo quest’ascolto in ordine sparso con le ancora non citate “Spellbound”, “High Compression Figure” e “Requiem for the Lost”. La title track attacca con un alternate picking ordinato e martellante che rimarrà come tema per tutto il brano, seguito dagli assoli al fulmicotone che tanto ricordano i fasti del debut “Rising Force”. La successiva “High Compression Figure” apre con un discreto duetto di Malmsteen con sé stesso per poi perdersi nel solito shredding ad alta velocità. L’ultima traccia, “Requiem for the Lost Souls”, chiude l’ascolto con grande malinconia sulle solite scale minori del talento svedese.
“Spellbound” è un album molto vario nonostante la sua natura quasi esclusivamente strumentale, degno successore di “Relentless” (tranne per i nostalgici di Owens), pieno di sfumature ed intuizioni, carico degli onanismi tecnici e degli orpelli stilistici che hanno reso Malmsteen il chitarrista neoclassico che conosciamo, nel bene e nel male. Impossibile negare le indubbie capacità tecniche dello svedese, almeno quanto è impossibile negare le sue pessime capacità in fase di produzione, anche se in leggero miglioramento rispetto al passato. Quest’album paga tuttavia molto caro lo scotto di diciassette predecessori, incapace di distinguersi da essi nell’oceano di note, scale ed arpeggi del suo istrionico autore, che stavolta si permette di fare davvero tutto da solo. Il pubblico si dividerà, al solito, tra grandi detrattori e fan sfegatati – a questi ultimi “Spellbound” è indubbiamente rivolto.
Per queste ragioni l’ascolto di quest’album è consigliato a due categorie decisamente agli antipodi: da un lato sono sicuro che appagherà i fan storici dell’artista; dall’altro potrà incuriosire i neofiti che si approcciano per la prima volta all’universo malmsteeniano, ai quali suggerisco comunque di iniziare dai primissimi album. Tra queste due categorie, proprio in mezzo, ci stanno un po’ tutti gli altri, dai detrattori storici agli indifferenti, i quali, probabilmente, si fermeranno ad osservare la copertina dell’album, commentando: “Malmsteen? Ne ha fatto un altro?”.
Luca “Montsteen” Montini