Recensione: Spirit Invictus
A poco più di un anno dal debutto tornano i greci Triumpher col loro secondo lavoro, “Spirit Invictus”, in uscita dopodomani. Saliti alla ribalta come un fulmine a ciel sereno grazie ad un heavy metal arrogantissimo screziato da fraseggi di black melodico (tempo fa avevo letto in giro una definizione che li dipingeva come un mix tra Manowar e Dissection, e devo ammettere che ci può stare), i baldi ateniesi battono il ferro finché è caldo e, dopo un paio di cambi in formazione, propongono un secondo capitolo che non si discosta di una virgola da quanto sentito nel primo, ma che grazie a un’abile opera di limatura gratta via un po’ di grasso guadagnandoci in densità e concentrazione. “Spirit Invictus” si compone di otto tracce in cui l’enfasi battagliera dei Manowar più accattivanti (il periodo di riferimento è quello “Kings of Metal”/“Triumph of Steel”, più melodico e piacione, se vogliamo) si sposa a melodie lussureggianti e a raffiche gelide che gli donano un che di ferino. I rimandi ai barbari d’oltreoceano si mantengono ben presenti nella musica degli ateniesi, che talvolta li omaggiano in modo così plateale da rasentare la venerazione, ma gli elementi di scuola svedese permettono al quintetto di scrollarsi di dosso, almeno di tanto in tanto, la pesante cappa da tribute band. Mi ha fatto piacere notare come, questa volta, i suddetti elementi siano stati messi maggiormente al servizio delle canzoni per aggiungere cattiveria alla componente epica, predominante, anziché prendersi eccessive libertà e creare derive a mio avviso troppo dispersive. Un metallo bellicoso e sborone, quindi, determinato a non fare prigionieri e a giocarsi il tutto per tutto grazie a un piglio massimalista e forte di un’arroganza contagiosa, stemperata da una maggiore attenzione ai dettagli. Al solito, sopra tutto “Spirit Invictus” si staglia un Mars Triumph carico a pallettoni che, al microfono, fa di tutto per rievocare l’Eric Adams dei tempi d’oro con la sua verve iraconda. Per la verità, in qualche occasione il buon Mars finisce fuori dai binari per eccesso di zelo, ma gliela si può perdonare per la storia dell’arroganza contagiosa di cui sopra.
Si parte con “Overture to Elysian”, evitabilissima intro atmosferica pompa–enfasi che cede il posto alla dichiarazione d’intenti “Arrival of the Avenger”, traccia veloce e carichissima che non ci prova neanche a nascondersi dietro il proverbiale ditino. Melodie battagliere sparate a mille, ritmi galoppanti, chitarre vorticose, testosterone che sprizza da ogni dove e, come già anticipato, un tasso di arroganza che pervade tutto il pezzo creando fomento in questa versione greca di “Wheels of Fire”. Con “Athena (1st Chapter)” i nostri abbassano i ritmi e giocano un altro carico da undici. La canzone si sviluppa lungo le coordinate della marcia trionfale, mescolando melodie cafone e cori altisonanti con sporadiche incursioni di chitarra dal retrogusto black e confezionando, così, un altro pezzo da cantare a pieni polmoni. Si prosegue con la belligerante title track, galoppata eroica ed insistita screziata da riff in odor di melodeath che le donano ulteriore dinamismo. La sezione solista gioca con toni più elegiaci e crepuscolari mescolandoli alla tradizionale cafonaggine, fungendo da rampa di lancio per il finale nuovamente arrogante. Si arriva ora alla più lugubre “Alexander”, la cui avanzata lenta e drammatica riecheggia i primi lavori, quelli più sulfurei, di deMaio e soci. Qui purtroppo le cose non vanno troppo bene: la voce, troppo enfatica, non si lega alla musica che la circonda e risulta a mio avviso in difficoltà nel trasmettere emozioni diverse dalla foga battagliera con cui Mars si trova, evidentemente, più a suo agio. Gli ispessimenti successivi provano a mettere una pezza ma senza successo, consegnandoci un pezzo non particolarmente a fuoco. Va un po’ meglio con “Shores of Marathon”, nuova marcia ad alto tasso di testosterone in cui le anime degli attici si fondono bene, trasmettendo a un tempo fomento battagliero e carica rabbiosa. Il momento narrativo in greco, dal fare intimo, apre ad una nuova ondata di trionfalismo ruggente che sfuma, poi, nella granitica “Triumpher”. Qui, dopo un’apertura che prende in prestito un po’ dell’epicità di scuola Bathory, i nostri tornano a snocciolare il loro metallo quadrato e veemente, mentre Mars riprende a fare ciò che gli riesce meglio rimettendo tutti in riga nel finale. Il sipario di “Spirit Invictus” si chiude sulle note di “Hall of a Thousand Storms”, altro pezzo dai ritmi marziali che fa dell’esaltazione trionfale la sua arma primaria. La canzone spinge sul fattore pathos, sfruttando cori possenti e melodie dal piglio evocativo e solenne come base per poi lanciarsi in rapide rasoiate. La sezione solista torna a caricare il giusto feeling in vista del finale, che dopo l’illusione di fuochi d’artificio sfuma invece in una placida quiete che sa tanto di calma dopo la tempesta.
Nonostante il carattere profondamente derivativo e qualche passaggio non proprio riuscito, non posso che riconoscere che “Spirit Invictus” sia decisamente un bell’album: è vero, i prodi ateniesi non inventano nulla e perdono colpi quando si allontanano dalla loro comfort zone, ma sono riusciti a correggere alcune delle sbavature presenti nell’esordio creando così un lavoro più centrato, capace di distrarre da una proposta ancora debitrice dei propri numi tutelari sfruttando una botta micidiale e arroganza a getto continuo.
La rotta è tracciata, e la trireme ateniese vola col vento in poppa: salite a bordo o preparatevi a farvi speronare.