Recensione: Spirits of Fire
Non amo i supergruppi. Sono arrivato a questa opinione dopo aver subito troppe delusioni da assemblaggi che si rivelavano straordinari nei dettagli, ma insensati nel complesso. Così spesso si tratta di tentativi sterili e un po’ tristi di raschiare il fondo di carriere che furono luminose, ma da anni ormai non brillano: ne scaturisce un disco, forse due, che eccita gli animi per qualche attimo, ma finisce presto nel dimenticatoio, così affollato nel diluvio di pubblicazioni discografiche contemporaneo.
Non lo nego: proprio con questo atteggiamento mi sono accostato alla prova omonima dei Spirits of Fire, band che annovera nomi altisonanti, capaci di evocarne alcuni tra i più grandi della scena metallica: Tim “Ripper” Owens, che fu sostituto di un certo Rob Halford in certi Judas Priest, Chris Caffery, chitarra di Savatage e Trans-Siberian Orchestra, Steve DiGiorgio, ovvero uno che ha suonato in band come Death (!) e Testament, e infine Mark Zonder, dotatissimo batterista che ha dato lustro a Warlord e Fates Warning. Insomma, le componenti perché rimanessi deluso c’erano tutte: troppo mi sarei potuto e dovuto attendere da chi ha militato in alcuni dei gruppi che hanno rappresentato (e ancora rappresentano) l’essenza stessa dell’heavy metal.
E invece Spirits of Fire è un disco strepitoso. Strepitoso. E non è tale in virtù delle mie preclusioni: semplicemente, è strepitoso. Oggettivamente.
Sembra un paradosso, ma negli ultimi tempi, tanto ricchi di uscite conservatrici che si rifanno ai suoni “veri” dell’heavy metal e tentano di ricostruire atmosfere che più non sono, è infrequente incocciare in un grande disco heavy metal. Sì, heavy metal e nient’altro. Spirits of Fire è un disco heavy metal: e non potrà non piacere a chi scorra queste pagine con regolarità, o saltuariamente. Se siete qui, significa che, almeno un poco, amate questa musica; e se amate questa musica, adorerete Spirits of Fire, che racchiude tutto quanto potete chiedere a un genere ormai ben stabilito e che ha in ciò, al contempo, la propria forza e, va detto, il proprio limite, che significa confine. I Spirits of Fire restano pienamente in quel confine: ma lo fanno alla grande, con una freschezza compositiva rara, rarissima.
In vero, l’opener Light Speed Marching mi ha lasciato interdetto, pronto alla delusione. Al primo ascolto, è un pezzo dei Judas Priest: un gran bel pezzo dei Judas Priest, ma niente di apparentemente personale, benché gli ascolti ripetuti ne facciano emergere tratti distintivi in termini sia di suoni che di arrangiamenti capaci di metterne in evidenza uno spessore ben superiore a quello di una cover cammuffata.
Ma il meglio deve ancora venire. Temple of the Soul non si discosta di molto dal tono priestiano, ma inizia a mostrare le influenze portate dal passato dei musicisti e, dunque, a maturare una personalità originale che, pur rimanendo nel solco tracciato dagli Dei metallici, riesce a valorizzarlo senza risultarne un clone inane. Tim Owens assume toni vicini a quelli di un altro Dio e Zonder comincia ad affrancarsi dagli arrangiamenti lineari di Light Speed Marching, arricchendo il pezzo di soluzioni raffinate.
All Come Together concede qualcosa in più alla melodia di presa, che fino a questo momento era rimasta celata dietro a una fucina metallica tradizionale ostica al novellino, ma melliflua al metallaro “vero” (ancora). Nel ritornello si sentono echi dei Savatage: e il cuore batte sincopato.
La title-track riprende ancora il discorso priestiano, accentuandone però il tratto epico cadenzato che è esaltato da una melodia tutt’altro che banale. La base ritmica sale sugli scudi e regala una dinamica mozzafiato a un brano già in sé notevole.
Il singolo It’s Everywhere è una canzone piuttosto semplice, quasi catchy, la cui qualità, pur restando alta, scarta un poco da quella media del disco.
A Game, invece, ha un tono al limite del mid tempo classico dell’hard rock stradaiolo, ma si riveste immediatamente di metallo in virtù della teatralità interpretativa di Owens e della prova di un Caffery ispiratissimo. Il tutto in un crescendo drammatico che solo musicisti di questo calibro possono reggere con stile.
Stand and Fight è metallo fuso, fin dal titolo. Direttamente nelle prime posizione della mia classifica di fine anno, è un brano che assomma tutte le caratteristiche di quello che chiamiamo heavy metal (clamorosamente intendendoci, pur nelle infine sue divagazioni): velocità, melodia, aggressività, suoni distorti, epicità, headbanging furioso. Bellissima.
Pur valido, Meet Your End è forse il pezzo più debole del lotto, non riuscendo ad affrancarsi del tutto dalla gabbia cadenzata in cui si è infilato. Di altro livello è, invece, The Path, che si situa in un ideale (e meraviglioso) luogo dove gli Warlord incontrano i Judas Priest. Eleganza epica rarissima, impreziosita da una struttura duttile, un arrangiamento elegante e un assolo perfetto per le circostanze. Con Stand and Fight, e forse più di quest’ultima, The Path rappresenta l’apice di Spirits of Fire: e siamo molto, molto in alto.
Infine, Alone in the Darkness inizia come una ballad metallica di grande atmosfera, per trasformarsi in un brano pienissimo, ricco di pathos e crescendo, che conduce meravigliosamente alla conclusione del disco.
Resta nell’ascoltatore la sensazione di avere finalmente assistito a una prova maiuscola, una di quelle che rendono orgogliosi di essersi fatti metallari nella vita. I Spirits of Fire riescono nel difficile compito di ritagliarsi un ruolo personale, e in ultima istanza una ragion d’essere, rispetto ai mastodonti con cui saranno inevitabilmente confrontati. Di costoro i Spirits of Fire sanno prendere colori e pennelli, per poi finire col disegnare un quadro certo influenzato da chi sappiamo, ma distinto e, addirittura, originale. Non me l’aspettavo proprio: dovrò cambiare la mia opinione sui supergruppi.
Da acquistare a occhi chiusi, sperando che avvenga il miracolo di vedere i Spirits of Fire dal vivo, un giorno.