Recensione: Spiritual Healing
È davvero complicato giudicare un album come “Spiritual Healing”, perché necessariamente bisogna scontrarsi con i tempi moderni. Giudicarlo con il senno di adesso? Giudicarlo nel contesto in cui è stato prodotto? Credo che la seconda ipotesi sia quella che rende più giustizia a questa piccola perla dimenticata, datata ben 1990. Parliamo di 13 anni fa, parliamo di preistoria del death, di anni in cui ogni passo compiuto è ora scolpito nella pietra e mostrato nei musei della musica.
Sembra che tanta pompa nel giudicare un album dei Death sia ormai quasi grottesca, e che sia il solito bigottismo per onorare la morte di quella grande mente che è stata Chuck Schuldiner. Eppure non è così; se i Death vengono considerati a ragione la band che ha battuto il cammino del Death Metal un motivo c’è, e parte di questo motivo è anche questo Spiritual Healing.
Molti ignorano questo album, e molti grandi fans dei Death lo denigrano. Il caso ha voluto che questo sia stato il primo album dei Death che ascoltai, a cui feci seguire l’acquisto dell’appena uscito Individual Thought Patterns. Ebbi tre anni dunque per digerire un album che senza dubbio ha rappresentato un’evoluzione del sound dei vecchi Death, dei death brutali e scuri di Leprosy e Scream Bloody Gore. Il titolo “per se” è già un cambio psicologico non indifferente.
Grande ospite alle chitarre a fianco di Chuck è James Murphy, che oltre ad essere un colosso del death metal lui stesso ( è stato chitarrista dei Testament, Obituary, Cancer e via dicendo), affianca Chuck anche nel terribile destino di avere attualmente un cancro benigno al cervello, per curare il quale si stanno tenendo grandi concerti dal 2001 a questa parte.
La loro simbiosi in Spiritual Healing è magica, e rende questo album un vero scontro di emozioni: brutale, feroce, veloce e innovativo quanto basta. Innovativo perché, a differenza degli album precedenti, questo si prende diverse libertà non indifferente che lo rendono abbastanza melodico, ai tempi una vera novità: le canzoni da orrori brevissimi (in stile Symphonies of Sickness dei Carcass) diventano lunghe e articolate, con il classico sistema strofa/ritornello/(strofa/ritornello)assolo/strofa/ritornello. Tanta articolazione rende le due track a mio giudizio migliori (la title track e Living Monstruosity, una denuncia sulla tossicodipendenza) molto lunghe, la prima addirittura oltre sette minuti. Questo è un cambiamento importante, che appunto ha fatto storcere il naso ai fans ma che è significato molto, specialmente per le band che sarebbero dovute nascere in seguito.
Tutto il lavoro ne giova: dalla prima all’ultima track l’album è tecnicissimo e di una velocità sorprendente e aggressiva, che si abbandona anche a temi “socialmente” interessanti, aspetto che è stato croce e delizia per i puristi del death che lo considerano puro solo grazie a determinate tematiche. Ma si sa, le one-man band capostipiti dei generi (come anche Bathory) sfuggono da ogni canone, release dopo release.
Ciò non significa che l’album sia perfetto: le canzoni stesse sono leggermente annacquate rispetto allo standard death e possono risultare a tratti noiose, nonostante le evoluzioni delle due chitarre e la velocità un po’ manieristica della batteria di Bill Andrews.
In ogni caso è un passo importante: cambiano le durate, cambia l’impatto sonoro rispetto al vecchio death, e cambia la sensazione del death che porterà poi all’evoluzione suprema di Individual Thought Patterns e Symbolic. Il problema è l’”ora”. Chi lo sente ora per la prima volta può trovarlo già sentito, già visto, già vissuto. E non perché questo album non sia originale, ma perché i grandi signori del death degli anni ’90 hanno attinto a piene mani da ciò che si è compiuto in questi anni.
Diamo ai Death ciò che gli appartiene di diritto. Un grande album death, prodigo figlio dei suoi tempi.
Tracklist:
1. Living Monstrosity
2. Altering The Future
3. Defensive Personalities
4. Within The Mind
5. Spiritual Healing
6. Low Life
7. Genetic Reconstruction
8. Killing Spree