Recensione: Stairway to Valhalla
Negli ultimi anni i sempre più demenziali Nanowar of Steel non hanno avuto un attimo di tregua. Abbandonata l’ambizione a cambiare nome della band in base alle vicissitudini dei Rhapsody, dopo il capolavoro “Into Gay Pride Ride” (2010) che è stato premiato con un sonoro 100/100 su Truemetal (il primo demo del 2003 prese 1/100), i nostri si sono concentrati principalmente sul Bel Paese. L’internazionalizzazione ha dunque ceduto il passo ad un’intensa attività di audience engagement sul suolo italico con brani cantati nel nostro caro idioma, narrando le gesta di un eroe nazionale come “Giorgio Mastrota, the keeper of inox steel” (2012) la magnanimità de Lo Imperatore di Feudalesimo e Libertà (2013), o magari organizzando un concerto e pubblicando un brano con Gli Atroci per risolvere la crisi politica italiana in qualità di “Sottosegretari alla Presidenza della Repubblica del Truemetal” (2018). C’è stata una parentesi, nel 2014, con “A Knight at the Opera”, accozzaglia randomica di pezzi che conoscevano anche i muri scrostati dei Pink Floyd, nella quale sono state riproposte alcune vecchie glorie con qualche sporadico inedito ma che suonava un po’ di minestra riscaldata al copy-paste, come del resto “Prometheus – Cinematic & Live” o “Legendary Years”. In questo i nostri hanno continuato a seguire i Rhapsody, e chi non è d’accordo è un barbagianni. Dopo cene da Gianni, odi al cetriolo e dediche stilnovistiche al gentil sesso, è finalmente giunta l’ora per la band (quasi) romana di tornare a rivolgersi al pubblico straniero. Tanto che il bassista e fondatore Gatto Panceri 666 ha compiuto lo sforzo babelico di presentare il nuovo album “Stairway to Valhalla” su Youtube in dieci diverse lingue.
Attratti (o distratti) dalla copertina, al solito opera del cantante/artista Potowotominimak, ci addentriamo nella selva oscura dell’ascolto.
Come diceva Aristotele: “i dischi dei Nanowar of Steel sono un sinolo di musica e parole, di materia e forma”. La forma la si coglie subito, grazie all’ottima produzione di Alessandro del Vecchio (Ivory Tears studios). La sostanza invece è impervia come la montagna dello Zarathustra nietzschiano: la produzione bombastica dei brani, unita alla strampalata pronuncia (anche in italiano, eh!) dei nostri, elementi che a loro volta si sommano alla complessità delle frasi cantate rischiano di rendere il tutto accessibile a pochi eletti. Scordatevi i ritornelli dei Maiden che ripetono sedici volte la stessa frase e provate un po’ a comprendere e cantare con leggiadria una strofa tipo: Your plan to destabilize the Bolivarian Republic of Venezuela with double digit inflation / Is now public domain. Il tutto disseminato di citazioni impossibili da cogliere per menti con un QI inferiore a quello di Mario Draghi. Per fortuna per i proletari esistono i lyric video, mentre i borghesi che hanno acquistato il CD possono sfogliare il booklet fumando erba pipa in giardino, ma anche questi ultimi difficilmente riusciranno a cogliere ogni rimando contenuto nel disco. Scordatevi il trofeo di platino.
Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?, diceva Lorenzo Tramaglino nel romanzo più odiato dagli italiani, e l’intro rhapsodiana “Declination” sembra rispondere a questa domanda, fornendo ai poveri metallari che hanno fatto l’istituto tecnico gli strumenti essenziali per comprendere la lingua di Seneca. Un servizio utile ed analogo a quanto fatto in passato con l’inglese, sempre nell’intrue.
Ospite d’onore dei Nanowar of Steel, la voce del mago Fabio Lione è protagonista in “Barbie, MILF Princess of the Twilight”, in un brano stracolmo di citazioni dalla Emerald Sword Saga della leggendaria band di Trieste che coglie Gerry Calà in controtempo ed illude Dino-Sauron grazie a Dildo Faggings dalla parte della regina del botox made in China di Mattel. (?)
Altro singolo, stavolta uscito prima ancora del disco stesso con un videoclip morboso e straniante, la lovercraftiana “The Call of Chtulhu” è un brano che parla del successo del più grande e letale businessman legato al mondo dei call center, Cthulhu appunto, che trascina con un refrain molto “lalala” preceduto da un bridge degno di Zoidberg.
Tirata a mille la priestiana “Heavy Metal Kibbles”, seguita dall’unico brano in lingua italiana del lotto: “L’opelatole ecologico” (con un’intro da Karate Kid), che ci introduce al tema del duro lavoro in nome dell’eco-sostenibilità di un temibile netturbino ninja.
Illuminante “Images and Swords”, che ci spiega come realizzare un pezzo dei Dream Theater partendo da un coro dei Manowar. Sembra l’uovo di Colombo, ma funziona: try this at home, warriors of the world. Sempre su basi manowariane, “In the Sky” attacca un grande cliché del rock senza dimenticare John Lennon e le scie chimiche.
C’è anche un lento, per tirare un po’ il fiato: “…and Then I Noticed That She Was a Gargoyle” è una ballata romantica tra Checco Zalone e “Surprise Love” che cita due brani del 1983: “Moonlight Shadow” di Mike Oldfield nella strofa e “Maniac” di Michael Sembello nel ritornello, in cui la Sharon Stone incontrata in una chat si rivela un amabile mostro di pietra.
“Tooth Fairy” rappresenta la candidatura al Nobel per l’economia dei Nanowar of Steel, un po’ come Prometheus è valsa quella ai Grammy per Luca Turilli: in un brano che più Stratovarius non si può (l’assolo neoclassico è la dimostrazione di quanto Timo Tolkki e Jens Johansson non siano veramente mai arrivati a Jacques Offenbach), i Nanowar dimostrano che il rapporto “1 dente = 1 moneta” genera una spirale inflazionistica pericolosa per l’economia mondiale. Risparmiatore avvisato…
Avanti a grandi passi come il “Vegan Velociraptor” che è l’erede spirituale di “Karkagnor’s Song” nel non nascondere la passione dei ragazzi per la cucina creativa (sono pur sempre gli autori di “Emerald Fork”), così come “Ironmonger (The Copier of the Seven Keys)” ci mostra il lato fai-da-te dei Nanowar.
Nuove frontiere per la comicità: “Uranus” scopre in maniera molto hard rock la freddura tra Uranus e your anus, sconsigliando a tutti destinazioni voyeuristiche differenti dal pianeta azzurro.
Contro un altro pilastro inossidabile del power metal teutonico, i Nanowar tornano a disturbare il guardiano cieco perdendosi lungo la via del Carrefour assieme ad Odino, Thor e Loki. L’imitazione vocale di Hansi Kürsch in “The Quest for Carrefour”è veramente notevole (un po’ meno quella di Aragorn nell’intro), in un collage che mescola i più grandi successi dei Blind Guardian alla ricerca dell’Onion Ring to rule ‘em all.
Chiusura-tributo per una delle più floride economie del pianeta: il Fürstentum Liechtenstein del principe Hans Adam, di cui abbiamo parlato approfonditamente nella recente intervista alla band.
Con i suoi diciotto brani (intro comprese) “Stairway to Valhalla” è un disco densissimo: almeno 1,27 g/cm³ come il pianeta azzurro protagonista del calembour dei Nanowar of Steel. Manca forse l’effetto sorpresa di “Into Gay Pride Ride”, che ha portato la band ad attraversare il delta Δp di 99 punti nella scala del Truemetal, ma anche qui la qualità è sopraffina. Come ogni (capo)lavoro dei Nanowar, anche la scalinata per il Valhalla non mancherà di dividere gli ascoltatori durante l’ascesa, nonostante la notevole prova tecnica dei nostri. Anche esclusi aprioristicamente i detrattori del metal parodistico, sembra veramente difficile per molti prendere sul serio questa band come davvero meriterebbe: sono gli unici al mondo a proporre il power metal demenziale con questa chiave di lettura (forse solo perché hanno perso le altre sei), spesso superando l’oggetto parodiato nella loro mistificazione dissacrante, operata in maniera originale, parossistica e politicamente scorretta, ostentatamente fastidiosa ed autruevolmente incorreggibile. L’impressione è che il pubblico abbia capito prima ancora della critica il valore di questa band e delle sue folli rappresentazioni, spesso più divertenti dei brani dai quali traggono ispirazione, della farsa che ormai è meno credibile della sua caricatura. Una realtà aumentata (o diminuita, boh?) in un mondo capovolto, dalla cultura alta a quella popolare, dalla macroeconomia alla politica, dall’epica del True Metal alla sub-cultura nauseabonda dei poser, attraverso un’accurata distorsione delle citazioni nelle melodie e nelle parole che fanno dei Nanowar of Steel i maestri del bricolage in ambito heavy-power-epic metal. Come sembra suggerire il Nanowarrior sul montascale nella cover del disco: Black & Decker is the new Emerald Sword!
Luca “Montsteen” Montini