Recensione: Stanbrook
Ci sono band e persone per le quali pare che il tempo si sia cristallizzato. Specificamente a quegli aurei anni Ottanta che per i cultori dell’Acciaio fatto musica rimarranno per sempre formidabili. Momenti oggettivamente irripetibili, per colore e qualità delle uscite. Il mondo e l’Europa in particolare si dimenava, a livello giovanile, fra correnti e modi di pensare e di atteggiarsi ben definiti. Le condizioni per far trionfare le distorsioni di una chitarra elettrica a tutto volume esistevano e il terreno sul quale far germogliare la guerra dei watt era fra i più fecondi. All’interno di quella massa numerosa di soggetti che ogni piè spinto si rifà a quei lustri eroici vi sono anche Alfonso Peña e José Piqueres. Due metallaroni orgogliosamente old style per attitudine e look ancora oggi, nel 2019, con il primo per affinità somatiche accostabile alla versione più rude di Joey Belladonna, tanto per capirci.
Nel lontano 1981 l’accoppiata di cui sopra diede vita agli Acero – nomen omen – che dopo un Ep nel 1983 e qualche foto con delle improbabili pin up de noantri a seno nudo e casco da moto approdarono al full length solamente eoni dopo, nel 2004, con “Acero”.
E’ storia di oggi, come anticipato poc’anzi, il debutto della nuova band denominata Stanbrook, per il tramite di un Cd omonimo autoprodotto in realtà esistente sin dal 2016 ma che solamente adesso può godere della meritata visibilità. Ad accompagnarlo un pieghevole cartaceo di dodici facciate a mo’ di booklet con tutti i testi, belle foto dei singoli componenti e delle note tecniche in lingua spagnola che spiegano le modalità con le quali la band ha assunto il moniker di Stanbrook, per l’appunto.
Come ben spiegato dall’amico Cesare Macchi, gran cultore del Metallo spagnolo:
Stanbrook è il nome di un cargo britannico che nel 1939, grazie alla disobbedienza e alla risolutezza del capitano Archibald Dickson, salpò dal porto di Alicante imbarcando e portando in salvo un numero impressionante di rifugiati civili, quasi 3000, in fuga dalla guerra civile spagnola e dagli uomini della dittatura franchista.
Accanto ai due stagionati defender, Peña alla voce e Piqueres ai tamburi, la line-up schiera Luis Frutos e Jordi Cabrera alle due chitarre per finire con Luis Varó al basso.
Tredici sono i pezzi che vanno a costituire la colonna vertebrale dell’album, tredici vertebre fatte di borchie e cuoio nero che costituiranno sollazzo per tutti gli appassionati di heavy fucking metal ortodosso in lingua iberica.
Al netto di una dose di melodia maggiore, l’opener “Stanbrook” suona come un omaggio dalle tinte giallorosse ai Grave Digger, tanta è la veemenza impressa dalla sezione ritmica e dalle due asce. L’ugola di Alfonso Peña trasuda esperienza, profondità e malizia sebbene non vada minimamente ad insidiare i fuoriclasse del genere, sia chiaro. La velocità media del prodotto alicantino si mantiene alta andando a piazzare alcuni colpi da ko quali “Sin Rencor” e “El Halcón Y La Presa” ove la violenza va a braccetto con il giusto gancio melodico, quello che imprime un ritornello, un passaggio, un “oooohhh” nella capoccia e che poi inevitabilmente ci resta in modalità heavy rotation per i giorni a seguire. Preparare poi il collarino prima di accingersi all’ascolto di “Palo Tras Palo”. In chiusura, un finale in levare sulle note dell’epica “Tierra Hostil”.
La miscela utilizzata dagli Stanbrook è semplice ancorché efficace: Muro, Tierra Santa e Obus insieme a eguali dosi di Judas Priest, Saxon e Iron Maiden e il gioco è fatto. Il risultato è un’ora e rotti di HM classicheggiante concepito onestamente e senza filtri di sorta che è sempre un piacere sciropparsi, con la consapevolezza che i capolavori dimorino da ben altre parti, immortali e sempre influenti anche dopo decenni.
Stefano “Steven Rich” Ricetti