Recensione: Standing on the Edge
Un po’ dimenticato e messo in secondo piano. Spesso sottovalutato.
Robin McCauley, singer irlandese dal buon curriculum e dalle doti canore eccelse, non ha probabilmente conosciuto il successo che un frontman di cotanto livello avrebbe di fatto meritato.
Una carriera fatta di luci ed ombre. Partita scoppiettando e poi declinata nell’oblio di comparsate secondarie e pochi successi.
Ci sono voluti quasi vent’anni per ritrovare le saettanti corde vocali del frontman originario di Dublino di nuovo al centro della scena. Nemmeno a dirlo, insieme all’antico pigmalione Michael Schenker nell’ennesima rinascita degli MSG, definita per l’occasione “Micheal Schenker Fest”.
Ma ancor di più, agli albori del 2020 con l’album griffato Black Swan, moniker inedito dietro al quale Frontiers aveva radunato assieme a McCauley, alcuni musicisti di alto profilo al fine di realizzare un eccellente album di hard rock solido e tonante.
Tornato in auge con pieno profitto e consensi diffusi ecco quindi l’assist definitivo per la rinascita, suggellata da un nuovo disco solista, seguito dell’unico ellepì sinora prodotto (nel lontano 1999) con McCauley quale protagonista assoluto.
Un cd che al solo vederne la copertina, evoca immediatamente sensazioni ottantiane di rock melodico infarcito di canzoni orecchiabili. Suoni cromati ed atmosfere in cui riscoprire l’eterno dualismo tra virile prestanza dell’hard rock, mescolato con i toni pastello ed avvolgenti dell’AOR.
Condito – è evidente – dall’ugola di un fuoriclasse.
Fluido, agile, ammantato di doti essenziali di classe e buon gusto. Un filo diretto con l’immaginario stilistico appartenuto a qualche decennio fa, cui le canzoni tendono con encomiabile costanza, infischiandosene di mode ed eventuali ammiccamenti a qualche trend.
In poche parole un disco godibilissimo nel senso più vero della definizione. Oltretutto piuttosto omogeneo nella qualità dei brani: poche cadute di tono e qualche highlight importante, perfetto per un ottimo revival dell’epoca d’oro del genere.
Collaborano alla stesura dei pezzi Phil Lanzon, Howard Leese, Tommy Denander e Ale DelVecchio: garanzie di qualità.
Non è un disco perfetto, proprio perché non può evitare una certa prevedibilità. Nell’essere tuttavia facile da interpretare e semplice nella tessitura melodica, è davvero “tanta roba” per le orecchie degli appassionati.
Non eccessivamente prolisso, vive di alcuni brani ampiamente significativi: bellissima ad esempio “Late December“, erede ideale dei grandi lenti targati eighties. Non da meno l’iniziale “Thy Will Be Done“, scintillante melodia dai riflessi notturni, o “Say Goodbye” e “Wanna Take a Ride“, altri due episodi deliziosi, ricchi di stile ed eleganza smisurata.
Un arsenale di soluzioni pensate per far risaltare al meglio una voce sempre sicura, piena e dominante.
Nulla da obiettare, insomma: “Standing on the Edge” convince senza riserve, piacendo sin dal primissimo ascolto.
Un interprete fantastico che fa davvero piacere veder finalmente riscoperto e valorizzato in tutta la potenza ed espressività di cui dispone.