Recensione: Stardust
Non giriamoci intorno: se la presentazione di una band da parte della casa discografica inizia con “Fantastic debut album from Transilvanian Progressive Metal Argonauts The Thirteenth Sun“, un po’ ti si alza. Ma che avete capito? Parlo dell’attenzione. Si perché in un mare di bio rese sterili dalla loro stessa pompa magna, in quella dei The Thirteenth Sun l’unica parola scontata è “fantastic”. Per il resto dice tante cose. Una band, peraltro, composta da soli nostri cugini transcarpatici (altresì noti come ‘rumeni’). E dalle terre di Vlad non è che di metal ne sia giunto molto, escludendo i Negură Bunget. Poi va beh, li chiama Argonauti, il che li presuppone inclini a viaggi sonori e sperimentazioni. E fanno progressive. E qui quasi mi dimenticavo: l’etichetta è la Aural, che in quanto a progressive e sperimentazione ci ha dato gli Hail Spirit Noir, che tra l’altro son greci come gli Argonauti.
Ascolta un cretino (cit.).
Perché in effetti in questa storia ci troviamo, per vie traverse, anche i Negură, nella persona di Edmond Karban, qui in veste di produttore. Abbiamo delle buone premesse da cui partire? Parrebbe di sì, e parrebbe proprio che “partire”, nel caso di “Stardust”, secondo full-length del 13mo sole, sia un verbo azzeccato. Perché Stardust è un vero e proprio viaggio spaziale, sospeso tra traiettorie tipicamente stoner e acidamente psychedeliche. E la opener , lenta e sognante, apre il disco con l’emblematico titolo di “Universus”.
L’album si snoda così in un continuo divenire, musica liquida e spigolosa che prende in egual misura dal prog settantiano come dagli ultimi Mastodon – specialmente in certe uscite del cantato. Nella seconda traccia, “Pathways”, è un po come se Kristoffer Rygg prestasse la voce agli Enslaved di “The dead stare”, spogliati di ogni componente black in favore di una maggiore componente acustica. In “Plans of Creation”, ancora, troviamola prima, vera, sfuriata black metal, dopodiché gli elementi testé accennati si intersecano, le atmosfere si fanno vieppiù cosmiche, oniriche, pinkfloydiane (“Echos”?), dando vita a brani estenuanti per durata e ascolto (su tutte “Melting skyes”), fino ad arrivare alla sinistra conclusione di “Glowing sun”, autentica ciliegina sulla torta, forse il brano più affascinante di tutti, benché strumentale.
A tutti gli effetti, dunque, “Stardust” si rivela essere un album profondamente derivativvo, un album fatto di prog contaminato tra svarioni settantiani e sparute sfuriate di estremo. Va detto che in alcuni episodi i Thirteenth Sun finiscono per impantanarsi, tirando troppo per le lunghe alcuni momenti con il risultato che l’attenzone scende e la musica rallenta in maniera eccessiva. Pur tuttavia, l’album si mantiene su standard decisamente buoni e, col procedere degli ascolti (ne servono parecchi), denota anche una discreta dose di personalità. Bel disco, ma destinato soprattutto agli amanti del progressive “obliquo” e dello stoner.