Recensione: Starfire Burning Upon the Ice Veiled Throne of Ultima Thule
Pubblicato a solo circa un anno di distanza dal nerissimo esordio, “A Black Moon Broods Over Lemuria”, “Starfire Burning Upon the Ice Veiled Throne of Ultima Thule” si presenta come il ponte ideale tra il sunnominato esordio e il ben più accessibile ma non per questo meno affascinante “Battle Magic”. Mi sono avvicinato tardi a questo secondo album dei Bal Sagoth, gruppo britannico dalle chiare reminiscenze Howardiane (il nome della band richiama il titolo di un racconto del ciclo celta dello scrittore di Cross Plains) e confesso di aver colpevolmente ignorato questo capitolo della loro discografia per molto tempo. La colpa era da ricercare nell’errata convinzione che il poco scarto temporale tra primo e secondo disco avesse portato a un evidente calo qualitativo, invece non potevo sbagliarmi di più. È incredibile, infatti, come i Bal Sagoth siano stati capaci, a così breve distanza da “A Black Moon Broods Over Lemuria”, di tirare fuori un altro album di questo livello, pur senza fossilizzarsi sul genere proposto in precedenza, ma arricchendo la parte orchestrale grazie al contributo fondamentale di Jonny Maudling senza per questo perdere la loro caratteristica violenza chitarristica.
Il prologo “Black Dragons Soar Above the Mountain of Shadows” apre le danze con le tastiere maestose di Jonny che già sembrano prendere le distanze dalla cupezza e malignità dell’esordio, in favore di una proposta più solenne e sinfonica che sfocia nella spettacolare opener “To Dethrone the Witch-Queen of Mytos-K’unn (the Legend of the Battle of Blackhelm Vale)” che, da sola, si merita il prezzo del cd. Il brano danza tra bordate black e aperture melodiche, passando per rallentamenti sognanti ed improvvise cavalcate più sinfoniche e trionfalissime, il tutto condito dal solito vocione di Byron che, a seconda delle necessità, urla, grugnisce, narra, strepita e declama. Una partenza eccellente. Piccola curiosità: su youtube girava un video di questa traccia con le immagini di Fire & Ice, un cartone animato piuttosto vecchiotto diretto dal signor Bakshi e basato su personaggi ideati dallo stesso Bakshi e da Frank Frazetta. Se lo trovate buttateci un occhio, non ve ne pentirete.
“As the Vortex Illumines the Crystalline Walls of Kor-Avul-Thaa” parte in quarta con un ritmo adrenalinico scandito dalle onnipresenti tastiere, mentre Byron ruggisce come al solito: ad un tratto il brano rallenta per consentire a Byron un approccio più sussurrato e solenne, salvo poi tornare a pigiare sull’acceleratore e farsi insistente, con la chitarra che duella con le tastiere per il resto del brano cercando in ogni modo di scalzarle dal centro dell’attenzione. La title-track viene introdotta dalla voce declamatoria di Byron, a sua volta accompagnata da un arpeggio sentito di chitarra e un tappeto orchestrale austero. L’entrata in scena della batteria segna l’inizio delle ostilità, con una prolungata sfuriata che si interrompe solo quando le tastiere reclamano la parola: da qui in poi il brano si trasforma in una parata trionfale che si incattivisce pian piano fino al finale sontuoso, per un brano che se la gioca con l’opener per lo scettro di gioiellino dell’album.
“Journey to the Isle of Mists (Over the Moonless Depths of Night-Dark Seas)” è un semplice quanto trascurabile intermezzo, utile solo per creare un po’ d’atmosfera prima della successiva “The Splendour of a Thousand Swords Gleaming Beneath the Blazon of the Hyperborean Empire”, altra traccia dai ritmi arrembanti e dai continui cambi d’atmosfera, benedetta da una batteria martellante ed ossessiva e dal gran lavoro di Chris Maudling alla chitarra: rimarchevole l’impennata di epicità che si consuma poco prima del finale. Si arriva ora a “And Lo, When the Imperium Marches Against Gul-Kothoth, then Dark Sorceries shall Enshroud the Citadel of the Obsidian Crown”, una marcia trionfale condita dalla voce maligna di Byron, da continue aperture melodiche (durante le quali si percepiscono echi della colonna sonora di Conan il Barbaro, composta dal mai abbastanza rimpianto Basil Poledouris) e da sporadiche accelerazioni. Nella sua seconda metà il brano rallenta, indulgendo forse un po’ troppo in una certa pomposa rilassatezza, ma visto che finora la qualità dei brani è stata sbalorditiva si può tranquillamente soprassedere su questo peccatuccio veniale.
“Summoning the Guardians of the Astral Gate” torna a pigiare sull’acceleratore, per un brano godibile ma che ad un tratto pare perdersi per strada, incapace di decidere in che direzione muoversi e spesso esitante, in bilico tra aggressività e magniloquenza, mentre la successiva “In the Raven-Haunted Forest of Drakenhold, where Shadows Reign and the Hues of Sunlight never Dance” si fa largo con l’incedere sicuro di chi sa di nuovo cosa fare, tornando alle velocità più canoniche del black metal ed infarcendole con altri brevi e sporadici richiami al “Conan” di Poledouris. Anche qui, arrivati a metà, il brano rallenta, puntando più sulla solennità e sfumandola in un intermezzo più sognante e rilassato prima dell’improvviso ritorno alle sfuriate barbariche dall’alto dosaggio di epicità a cui i nostri britanni ci stanno pian piano abituando (e che troveranno il loro compimento nell’album successivo). Chiude questo gioiellino l’epilogo “At the Altar of the Dreaming Gods”, che sembra quasi richiamare nel suo svolgimento la maligna intro del primo album, screziandola però con toni più solenni e meno malsani.
In definitiva ci troviamo di fronte ad un album di caratura decisamente superiore alla media, un piccolo gioiello di magniloquente violenza, ingiustamente ignorato dai più, capace, grazie all’equilibrio della sua proposta, di farsi apprezzare sia da ascoltatori di black metal più canonico che da orecchie un po’ meno portate alla malignità musicale. Confesso di preferirgli ancora di un filo il più grezzo ed acerbo esordio, ma qui si entra nel mondo dei gusti personali e, come sapete bene, al cuore non si comanda. In ogni caso un album da avere, punto.
Stefano Usardi