Recensione: State of Mind
Adrian Smith, a modesto parere del sottoscritto, è sempre stato un buon compositore in grado di dare in più di un’occasione quella “marcia in più” che ha consentito agli Iron Maiden di diventare la grande band che è. Il merito del successo di questa gloriosa band, ovviamente, non è solo suo ma ritengo che in alcuni passaggi fondamentali della carriera discografica del gruppo abbia saputo “guardare avanti” e regalare ai fans della band episodi memorabili. Quando Smith uscì dalla “Vergine di Ferro”, furono in molti a storcere il naso, preoccupati per le sorti della band. In fondo se ne era andato un elemento importante della band, non solo dal punto di vista chitarrista ma anche, per le ragioni esposte sopra, dal punto di vista compositivo. Il nostro, una volta uscito dal gruppo, si cimentò subito su un progetto ambizioso e decisamente insolito, l'”Adrian Smith and Project” un “ensemblemant” comprendente, tra gli altri, alcuni elementi della vecchia band pre Maiden dove militò (sul finire dei 70) il famoso axeman. Il risultato di questo nuovo progetto fu la registrazione di “Silver and Gold”. Quest’album fu una vera novità per i fans degli Iron Maiden, vista la forte sterzata musicale qui intrapresa. In sostanza questo album suonava molto “melodic hard rock”, ma di gran classe. Nonostante l’evidente allontanamento dal sound heavy, questo lavoro ricevette un discreto consenso a livello di critica. A questa release ed esperienza seguì, da parte di Smith, il tentativo di costruire un nuovo progetto che prese poi il nome di “Untouchbles”. Il nuovo gruppo non portò a nulla di concreto, discograficamente e venne trasformato in un nuovo gruppo dal nome “Psycho Motel”. Questo progetto si rivelò molto prolifico per il chitarrista, tanto da portarlo a registrare due album: “State of Mind” e “Welcome to the world”. Questi due lavori riportano Adrian a cimentarsi in composizioni tipicamente heavy metal, con risultati molto convincenti. In particolare, “State of Mind” denota una direzione musicale molto precisa dove i cliché tipici heavy si amalgamano ottimamente con un retrogusto blues dando luogo a tracksin qualche modo debitrici del sound sabbathiano. Concentriamo dunque l’attenzione sull’analisi di questa prima fatica degli “Psycho Motel”.
La copertina colpisce l’occhio per i colori, molto vivi. Decisamente singolare, in particolare, la scelta del contrasto cromatico che conferisce alla copertina un certo alone di mistero.
Apre il disco la potente “Sins of your father”. Il riff è pesante e già dalle prime note di questo brano si capisce quanto il “sabbath style” influenzi il nuovo corso di Adrian. La cupa maestosità del pezzo è ben rappresentata non solo dal riffing chitarristico, ma anche dalle ritmiche “calde” e cadenzate, nonché da vocals ben impostate e graffianti (soprattutto nel bel refrain). L’assolo è la bella sorpresa della track, mostrando uno Smith in piena forma. Si prosegue con “World’s on fire” e anche in questo episodio la band al completo concentra l’attenzione dell’ascoltatore su un riffing aggressivo e compatto sostenuto da una sezione ritmica più dinamica ma sempre potente. La buona prova in sede solistica, precedentemente assaporata, si rinnova qui con eguale grazia e perizia melodica. E’ ormai chiaro che il disco viaggia su coordinate musicali molto heavy. Un intro suggestiva per chitarre semiacustiche (su toni leggermente alti, dando quasi la sensazione di ascoltare un sitar), ci introduce all’ascolto della seguente “Psycho Motel”, brano con un riffing articolato “a due faccie” dove parti più potenti si alternano ad aperture melodiche ben studiate. Il tema fondamentale del pezzo rimanda nuovamente ad atmosfere che rimandano agli episodi migliori dei Black Sabbath, con quella particolare miscela di hard’n’heavy e blues che ha fatto storia. Tocca a “Western Shore” cambiare decisamente contesto musicale, portando il combo ad avventurarsi nell’esplorazione di lidi melodici introspettivi e quasi malinconici, merito di un riffing acustico accattivante.Il tocco di classe arriva quando irrompono le chitarre distorte declinando secondo canoni blueseggianti il tema fondamentale. Di sicuro è da considerarsi, ad ascolto ultimato, una song decisamente riuscita. La seguente “Rage”, invece, è una song che declina secondo canoni decisamente heavy la lezione di grandi band come led Zeppelin Deep Purple , grazie ad un riffing coinvolgente e ad una sezione ritmica che opportunamente sottolinea i “passaggi d’umore” del brano: da quelli di più diretto impatto a quelli di melodia sopraffina. Un riff d’apertura minaccioso introduce alla sesta song dell’album, “Killing Time”. Qui si nota un buon lavoro a livello di progressione ritmica della traccia: infatti fondamentale per la riuscita del pezzo è il drumming che sottolinea molto efficacemente e in maniera lineare le costanti accelerazioni e le decelerazioni che vengono “dettate” dal riffing che prima è cupo e potente per poi farsi melodico e di più accessibile presa sull’ascoltatore. Se l’ombra dei Black Sabbath si presentava in forma soffusa e discreta lungo i riffs dei precedenti brani, nella successiva “Time is a hunter” si disvela in tutta la sua maestosità permettendo alla band di Adrian Smith di omaggiarla con un riffing che più classico nel cliché sabbathiano non si può. Questo “tributo” al vecchio amore musicale del famoso chitarrista viene dichiarato attraverso un riffing cupo ma molto affascinante, dove si distingue un bell’assolo assolo che ne impreziosisce la fattura e da vocals “calde” ed ispirate. “Money to burn”, invece, è una song giocata su riffing roccioso alternato alle aperture melodiche del refrain eseguito con la consueta perizia per quanto riguarda gli arrangiamenti. Un morbido arpeggio frutto di chitarre leggermente distorte introduce alla seguente “City of Light”, brano di sicura presa soprattutto nel refrain che sicuramente si stamperà nella mente dell’ascoltatore con facilità. Chiude l’album “Excuse me”, brano introdotto da un riff armonioso e accattivante seguito da un refrain melodico quasi rassicurante. Il pezzo è ben costruito e piacevole, anche se forse avrebbe giovato molto al brano la presenza di un assolo che avrebbe spezzato la sostanziale ripetività del brano.
In conclusione questo “State of Mind” è un bel disco, forse il migliore della carriera solista di Adrian Smith, farlo vostro vi convincerà ancora di più della bravura di un musicista di indubbio talento.
Tracklist:
1) Sins Of Your Father
2) World’s On Fire
3) Psycho Motel
4) Western Shore
5) Rage
6) Killing Time
7) Time Is A Hunter
8) Money To Burn
9) City Of Light
10) Excuse Me
Line Up:
Solli: Vocals
Adrian Smith: Guitar
Gary Liedeman: Bass Guitar
Mike Sturgis: Drums