Recensione: Static
Il maggior pregio di Jill Janus, cantante degli statunitensi Huntress, non è di certo il saper passare inosservata. Scoperta dal signor Hugh Hefner ormai diversi anni fa e divenuta coniglietta di Playboy, la giovane Jill si guadagnava da vivere nei locali di New York con lo pseudonimo di Penelope Tuesdae, lavorando come “topless DJ”. Il connubio di musica e tette, tuttavia, non era altro che uno stratagemma funzionale alla carriera della giovane artista, dotata (stando alle parole della stessa) di un range vocale di quattro ottave, nonché di una evidente propensione al songwriting, alla musica pesante ed alla stregoneria. Un personaggio controverso, che dichiara con disinvoltura nella stessa intervista di soffrire di depressione e disturbo bipolare fin da bambina, nonché di avere un cancro all’utero (poi fortunatamente sconfitto), capace di farsi fotografare in situazioni improbabili, come quella volta in cui pubblicò una foto totalmente nuda con una cuffietta in testa riversa sul water a seguito di un presunto avvelenamento. Eccola dunque sul palco con i ‘suoi’ Huntress, vestita in leather e stivaloni da prostituta di basso borgo mentre si agita freneticamente, quasi a voler stregare, spaventare ed eccitare il pubblico, tutto al contempo, con buona pace degli anonimi musicisti che si porta dietro. Inutile girarci attorno: gli Huntress non sono altro che una manifestazione dell’istrionica Jill Janus, la cacciatrice evocata nel moniker della band giunta con “Static” al suo terzo lavoro; la strega malefica ed ammaliatrice (ed elettrostatica) che compare nella copertina dell’album.
Il disco parte con la giusta carica, l’attacco chitarristico di “Sorrow” (secondo singolo del lavoro), si porta dietro tutta la tamarraggine e l’ignoranza necessaria per trascinare un bell’album heavy; peccato che il tutto sfumi abbastanza rapidamente con un riffing davvero povero ed un brano che si regge sul solo ritornello (bruttino) “Sorrow/ Can’t let go”. Anche l’assolo risulta fiacco, con la batteria poco convinta… presente anche qualche episodio lirico abbastanza ingenuo e farcito di espressioni comuni: “Like a suicide letter/ This shit can’t get any better/ Life really sucks/ Someone please shut up”. Si salva invece l’ottimo videoclip del brano, girato da Phil Mucci in pieno stile horror B-movie addirittura parlato in italiano e sottotitolato in inglese: “La Maledizione della Vampira Lesbica”.
Il disco procede su binari senza particolari sussulti, un po’ meglio a livello melodico la successiva “Flesh” (primo singolo), in cui la Janus tira fuori un po’ di carattere e talento sporcando la voce in alcuni passaggi ed allungando qualche nota. Segue “Brian”, brano dedicato ad un vecchio santone sordo al quale Jill sembra essere particolarmente legata. “I want to wanna wake up” è un pezzo tutto hard rock ispirato al personaggio già citato di Penelope Tuesdae ed al conflitto interiore della Janus contro questo suo alter-ego, durato ben dieci anni (?!).
Sempre immersa nel mondo dei conflitti interiori, disturbi bipolari, schizofrenia e roba simile la lunghissima “Mania”: un mid-tempo di quasi nove minuti tra arpeggini e riff ripetuti all’infinito senza mai un momento davvero convincente: il fade out finale sembra quasi una liberazione.
Accelera di nuovo il tempo per “Four Blood Moons”, pezzo tra cabala e profezie che rimarca il background mistico della strega statunitense. Sufficiente la titletrack “Static”, primo brano scritto dalla band per questo disco e risalente al 2013, relativa ad un misterioso ronzio elettrico che porta alla pazzia, raffigurato sotto forma di scariche elettriche nell’artwork. Buona anche la successiva “Harsh Times On Planet Stoked” che porta un po’ di varietà al songwriting con gli “ooh” nel ritornello ed una parte centrale in crescendo tra riffing, voce ed un bell’assolo.
Chiudono l’album “Noble Savage” con un ritornello ai confini dell’AOR con una linea di basso abbastanza sostenuta e la più dura “Fire in My Heart”, dove una Janus piromane riesce a convincere con una buona prestazione: l’identità della band con la sua cantante è nuovamente confermata.
“Static” diviene così l’emblema del percorso artistico degli Huntress già segnato con il precedente “Starbound Beast”: un heavy fin troppo classico e stereotipato che si sbarazza delle catene malefiche e raccapriccianti del metallo più oscuro per approdare verso lidi decisamente più melodici e mainstream – accentuando la contraddizione in essere tra la malignità della magia nera e l’ammiccamento continuo della musica melodica. Il che, per parecchi versi, fa rimpiangere la genuinità (o quasi) del debut “Spell Eater”, che pur nel suo essere pacchiano e fin troppo spinto anche per le possibilità della band arrivava dritto al dunque con alcuni pezzi davvero ispirati. Paradossalmente, però, questo disco contribuirà ad incrementare la fanbase degli americani, grazie a melodie catchy studiate apposta per creare facile proselitismo. Qualche episodio riuscito c’è, ma siamo ben lungi dalla qualità di numerose altre band heavy uscite sul mercato nell’ultimo periodo, composte da musicisti ben più capaci ed ispirati degli Huntress, artisti che per una ragione o per l’altra non riscuotono il successo meritato, a fronte di band come questa che sovente riceve fin troppe attenzioni tutt’altro che attinenti al mondo della musica. Ivi compresa l’intro della presente recensione.
My hate fuels the pain
I get trashed to fuck my brain
Thoughts breed regret
The future is my only threat
Luca “Montsteen” Montini