Recensione: Stay Steel
Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa!
No, non sono impazzito di colpo, né tantomeno mi sono convertito alla parte avversa (sono un metallaro, dopotutto: ci sono dei cliché da salvaguardare), volevo solo cospargermi pubblicamente il capo di cenere per essere arrivato alla mia veneranda età senza conoscere l’opera dei bolognesi Crying Steel, tra le leggende del metallo tricolore degli anni ’80, giunta oggi (anzi, ieri) con “Stay Steel” al quarto capitolo (se si escludono EP e riedizioni extralusso). Ora, il fatto che i nostri si siano formati nell’82 non depone certo a mio favore – da qui le scuse – ma, in mia difesa, va anche notato come la loro discografia non sia particolarmente corpacciuta. D’accordo, questa non è assolutamente una scusa, ma ad ogni modo dicono che il primo passo verso la redenzione sia quello di riconoscere le proprie mancanze, per cui eccomi qui.
Bene, procediamo.
A voler ben vedere basterebbe un aggettivo per aprire e chiudere la trattazione del nuovo album dei bolognesi, e quell’aggettivo è “entusiasmante“: “Stay Steel” è un album semplice, diretto e senza troppi giri di parole, adrenalinico e divertente, suonato con professionalità, orecchio e tanta passione senza scadere nella seriosa tracotanza di chi ci crede troppo o ci crede nel modo sbagliato; in poche parole una gran bella boccata d’aria fresca. Appena pigiato play, infatti, si viene travolti da una dissetante cascata di acciaio arroventato in perfetto stile eighties, fatto di chitarre ruggenti e ritmiche massicce, melodie virili e atmosfere stradaiole tutte cuoio e borchie, il tutto completato dalla voce di un Tony Mills sugli scudi, vera arma in più di un combo assolutamente affiatato; ciononostante, ed è questo il vero punto luce del lavoro, neanche per un secondo dell’oretta scarsa di “Stay Steel” si avverte quel fastidioso odore di muffa e di chiuso che si percepisce quando qualcuno cerca di suonare come negli anni ottanta ma confonde l’attitudine con la nostalgia. Qui di attitudine ce n’è a pacchi e di nostalgia non ce n’è un grammo che sia uno: “Stay Steel” è fresco, frizzante, melodico ma non melenso, impertinente il giusto e, altra ottima cosa, prodotto con l’occhio di chi guarda anche al di fuori del proprio orticello e sa di poter dire la sua anche nel mercato internazionale. Ogni singolo elemento, qui, è al suo posto e si incastra perfettamente a tutto ciò che lo circonda, dando vita ad un articolo al passo con i tempi e, come si suol dire in questi casi, col tiro giusto; si tratta, in ultima analisi, di un’ora di heavy rock dinamico e sborone che pur suonando col piglio naif di trent’anni fa non si fa trascinare sul fondo dai cliché codificatisi nei suddetti trent’anni, e l’età anagrafica dei membri del gruppo la dice lunga sulla capacità di certa gente di suonare sempre vivaci e pimpanti senza snaturare se stessi o, viceversa, riciclare sempre più stancamente lo stesso album. La sezione ritmica si mantiene puntuale e grintosa senza sentire il bisogno di strafare, puntando su un’asciutta (e volendo essere cattivi anche un po’ banalotta) semplicità per non caricare troppo i brani di inutili sovrastrutture, mentre le chitarre sono lasciate un po’ più libere di spaziare, sempre tenendo presente il mood della canzone di turno e, soprattutto, l’obiettivo finale: ciò consente ai nostri di creare brani dotati tutti di una propria personalità ben identificabile ma tutti accomunati dal desiderio di fondo di intrattenere ed avvincere l’ascoltatore. Sopra tutto, come già accennato, la voce limpida di mr. Tony Mills, classe 1962, che pur essendo lì lì per spegnere la sua cinquantaseiesima candelina dimostra ancora di avere una classe vocale di tutto rispetto, variando da acuti cristallini a una voce roca e beffarda, maggiormente stradaiola.
Per quanto riguarda il tiro delle canzoni non c’è che l’imbarazzo della scelta: praticamente si fa un excursus sui principali sottogeneri dell’heavy classico, spaziando senza soluzione di continuità dagli inni trionfali tutti pathos e tempi quadrati (“Born in the Fire” o le conclusive “Warriors” e “Road to Glory”) a brani più sostenuti e adrenalinici (la traccia d’apertura “Hammerfall” e “Sail the Brave”) fino a quelli più stradaioli o dall’intenso retrogusto glam (“The Killer Inside” o “Crank it Up”). Per amore di verità va notato che, pur non essendoci delle vere e proprie flessioni, alcuni passaggi un po’ sottotono ci sono – in effetti una canzone come “Speed of Light”, a parte la bella sezione melodica che precede l’assolo, mi ha detto poco – ma si tratta di episodi del tutto trascurabili dinnanzi al risultato finale: “Stay Steel” scorre con una facilità impressionante per tutti i suoi 55 minuti, diverte e avvince allo stesso tempo e riconferma le capacità di un gruppo che, nonostante il trascorrere del tempo, ancora non mostra punti deboli.
Complimenti.