Recensione: Steelhammer
Arriva al quattordicesimo album in studio, il buon UDO, con una copertina e un titolo decisamente incisivi. Ho sempre seguito con interesse le uscite del singer tedesco, anche se, diciamolo pure, le ultime non sono state proprio memorabili. Steelhammer si pone sugli stessi binari degli album precedenti, nonostante due importanti cambi di line up: abbiamo infatti il russo Andrey Smirnov (ex Shadow Host, tra gli altri) e il finlandese Kasperi Heikkinen (proveniente dalle fila dei Merging Flare) alle chitarre, in sostituzione del duo storico Kaufmann/Gianola. Se alcune soluzioni sono lodevoli, bisogna dire che il cambio della line up si fa sentire per quanto riguarda il songwriting.
La title track fa da opener, con un bel riff veloce e aggressivo al punto giusto. La voce al vetriolo di Udo è il valore aggiunto a un pezzo che sa di già sentito pur funzionando alla perfezione: una bella colata di metallo impreziosita da qualche soluzione chitarristica degna di nota. Passiamo alla cadenzata A Cry Of a Nation, buona la sezione ritmica ma il brano fatica a rimanermi impresso. Intendiamoci, non ho nulla contro i gruppi che si ripetono (altrimenti non ascolterei ancora Ac/Dc o Manowar, tanto per citarne due), ma in questo caso sembra manchi il mordente. Da un titolo come Metal Machine mi sarei aspettato qualcosa di più: buoni comunque il ritornello e la progressione finale. Riuscito, a mio parere, il tentativo di cimentarsi con lo spagnolo in Basta Ya, anche per una linea vocale un po’ più ricercata rispetto al solito. A proposito di esperimenti, sono rimasto stupito – negativamente – dalla seguente Heavy Rain, due minuti di ballad in cui la voce del nostro fatica a trovare una sua collocazione. Mi ha fatto tornare in mente alcune ristampe dei Savatage in cui Jon Oliva tentava di fare sue delle ballad cantate da Zak Stevens. L’intro in stile Beverly Hills Cop ci porta alla seguente Devil’s Bite, pezzo abbastanza scialbo che si riprende, ancora una volta, nel ritornello. Si torna a velocità più sostenute con Death Ride, classico pezzo in stile UDO. Buona anche la seguente King Of Mean, forse una delle canzoni migliori del lotto, con il suo andare roccioso e il cantato incisivo del singer tedesco. Torniamo purtroppo in territorio grigio con Timekeeper e la melodica Never Cross My Way. La seconda è forse superiore alla prima per qualità ma la “puzza” di filler aleggia eccome. La rockeggiante Take My Medicine risolleva un po’ questa seconda parte dell’album, così come Stay True, altra highlight del disco. Chiudono l’album due pezzi anomali: When Love Becomes a Lie e Book of Faith, entrambe memorabili solo perché concludono in modo claudicante un disco già non troppo esaltante di per sé.
Qualche buon pezzo non basta a rendere degno di nota questo Steelhammer che, anzi, mi ha lasciato più di qualche perplessità (prima tra tutte: serve davvero registrare un disco da quattordici tracce se le idee latitano?). Se vi fa impazzire lo stile di Udo non fatevi problemi ad aggiungerlo alla vostra collezione, anche se dubito rimarrà nel vostro lettore a lungo.
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