Recensione: Stefanie
Stefanie Johnson, con i suoi occhioni dal colore impossibile, viene dalla Pennsylvania. A primo impatto risponde perfettamente allo stereotipo che la sua immagine dà di lei. Ragazzona di stampo amazzone, cresciuta a pane hamburger e concerti live sui palchi di tante manifestazioni locali fino all’esibizione alla Rock and Roll Hall of Fame nel 2011. La guardi e ti chiedi: “che tipo di musica potrà mai fare questa bella figliola?” AOR, esatto! Un rock estremamente annacquato, iper melodico, timidamente affacciato sull’hard senza dar mai troppo disturbo alle articolazioni dei rocker perennemente in attesa di scapocciare al suono di qualche bel riff saturo, di un vigoroso percuoter di pelli in 4/4, di un basso pulsante e invadente. Ok d’accordo, siamo in linea con le previsioni, Stefanie – con quel suo nome (senza cognome) da concorrente di Amici di Maria – molto probabilmente seguirà le orme delle varie Fiona Flanagan, Robin Beck, Lee Aaron e compagnia sciantosa, rock muliebre, delicato e verace al contempo. No, manco quello….
Stefanie pare indecisa se intraprendere una carriera pop in stile Christina Aguilera (meno glamour e più rockettara… anche se con un pezzo come “Fighter” la Aguilera la asfalterebbe impietosamente) o più alla Bryan Adams, sebbene l’accostamento che più di frequente le viene associato è quello con Faith Hill. La voce è morbida e piacevole, l’entusiasmo c’è, manca vistosamente un songwriting all’altezza dei 17 euro richiesti per l’acquisto (prezzo Amazon). Hai voglia ad infarcire i credits di special guest quotati come Paul Crook (Meat Loaf), Ken Dubman (Prophet) e Charlie Calv (Shotgun Symphony, Punky Meadows), l’apporto qualitativo degli strumenti rimane al minimo sindacale, rockstar o turnisti non fa differenza, il risultato è piuttosto modesto. Bisogna aspettare più di metà scaletta per arrivare al primo brano che desta l’attenzione (“One Life“) pur senza essere niente di che. “Stefanie” è un album che si perde seduta stante nel mare magno delle affollate uscite rock AOR; di primo acchito si può essere attratti dalle fattezze della Johnson in copertina, ma difficilmente un ascolto motiverebbe l’acquirente a prediligere questo disco anziché altri meno “biondi” ma più corposi a livello musicale.
Il sound delle undici tracce offerte è perfetto per l’airplay radiofonico di qualche college americano ma non ha le carte in regola per prendersi la sua fetta di attenzione mediatica, per imporre Stefanie come la nuova sensazione del melodic rock a stelle strisce. In tutta onestà si tratta di un lavoro ancora troppo pallido e impersonale, che non di rado ci sorprende a sbadigliare, in attesa speranzosa della canzone successiva a risollevarne le sorti. Stefanie ha una bella presenza scenica, una voce né migliore né peggiore di tante altre, forse non diverrà la nuova Ann Wilson ma potrebbe tranquillamente costruirsi la sua dignitosa carriera rock; a tal scopo è strettamente necessario però affidarsi ad un team produttivo/compositivo di tutt’altra pasta, estremamente più incisivo e pervicace nel confezionare un “vestitino” da far indossare a Stefanie che le permetta di distinguersi tra mille altri, anziché relegarla a sigla di testa di un telefilm giovanilistico tipo Beverly Hills 90210. Un tempo sarebbe bastato citofonare a Gene Simmons…
Marco Tripodi