Recensione: Still at War

Di Stefano Ricetti - 4 Maggio 2007 - 0:00
Still at War
Band: Holy Martyr
Etichetta:
Genere: Epic 
Anno: 2007
Nazione:
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76

Gli Holy Martyr richiamano molto da vicino, a livello di attitudine e percorso artistico, le band tricolori della NWOIHM, ovvero gente che si faceva un mazzo tanto per anni e anni prima di poter arrivare – spesso traguardo solo per pochi – al tanto agognato vinile. I Nostri si formano a metà degli anni Novanta e, grazie alla produzione di tre demo, di cui uno finanziato da circa duecento fan, hanno la possibilità di guadagnarsi un ottimo seguito, nonostante sul mercato di ufficiale non vi sia niente. Riescono a suonare al Festival culto Keep it True, in Germania, dividendo il palco con gente come Manilla Road, Elixir e Wizard oltre a presenziare in una rassegna HM ad Atene, in compagnia dei NWOBHM hero Cloven Hoof.

Still at War costituisce quindi il loro esordio discografico, grazie alla Dragonheart Records, che in fatto di uscite “Defender” difficilmente si lascia scappare delle nuove leve interessanti. I testi vertono su tematiche ispirate ai legionari romani, all’antica Europa e alla Grecia. La formazione vede Alex Mereu alla voce, Ivano Spiga (fondatore della band) ed Eros Melis alle chitarre, Rob Frau al basso e Daniele Ferru alla batteria.

Still At War.
Si entra nel campo di battaglia con Legion’s Oath (March of the Legionaries), narrazione in latino che poi esplode in una fragorosa cascata epica che si trasforma nella marziale Vis Et Honor, trionfale incipit infarcito dal coro “Ave, Ave Roma” che finalmente riporta in alto la nostra storia con la “S” maiuscola, quella che più ci appartiene, senza dover per forza cantare le odi dei Vichinghi o dei Sassoni, con tutto il rispetto, s’intende! L’HM degli Holy Martyr è pregno di una epica antica, lontana dai cori barocchi e carichi che da qualche anno vengono utilizzati in altri, illustri, ambiti. Ares Guide my Spear è un mid-tempo nel quale la voce di Alex annuncia stentorea l’ispirazione dei Nostri ad Ares (figlio di Zeus ed Hera, nella mitologia greca), guida e nume tutelare delle lance pronte alla battaglia nel mezzo di uno scontro.

La prima vera mitragliata in mezzo alle gengive, per quanto attiene la velocità di esecuzione, si ha con Warmonger, un brano speed nella parte iniziale che rallenta leggermente per lasciare spazio ai soli di chitarra di Ivano ed Eros, per poi tornare ai ritmi consueti e chiudersi fra un tripudio di metallo fuso. In Hatred is my Strenght le velocità tornano ai canoni più consoni agli Holy Martyr, rafforzati però da due chitarre dalla potenza tellurica, per un brano di oltre dieci minuti. From the North Comes the War è il pezzo che più rimanda a certi territori epici già percorsi nel tempo da altre band italiane: un crescendo continuo nell’interpretazione e nelle sfuriate chitarristiche, per chi scrive l’episodio migliore di Still at War, martellante come solo certi pezzi sanno essere. Hadding Garmsson (Song of a King) è pesante come un macigno dell’Adamello e ricorda i Manowar di Into Glory Ride, con le asce a mo’ di clave, la batteria a la Scott Columbus e l’interpretazione vocale imperiosa; i soli centrali ricordano i compagni di scuderia Domine. Si esce dal campo di battaglia da vincitori con Ave Atque Vale: una cavalcata molto più ariosa rispetto al resto che chiude degnamente l’esordio discografico ufficiale degli Holy Martyr.

La formula dei Nostri richiama spesso artisti come Manilla Road, Cirith Ungol, gli Omen più ortodossi e i Manowar degli inizi, oltre a schiacciare l’occhio a proposte tricolori come Doomsword e Domine. Gli Holy Martyr, nei cinquanta minuti di Still at War, dimostrano una coerenza per la causa encomiabile, grazie alla produzione di quella vecchia triglia degli studi di registrazione che è Al Festa.

L’album sarebbe stato molto più graffiante se i Nostri avessero osato variare un poco di più sul tema, senza per questo “svendersi”: cercando cioè maggior immediatezza in molti episodi ed evitando qualche cliché di troppo che alla lunga rischia di far entrare nella ripetitività. Il cantante Alex Mereu, ad esempio, avrebbe potuto “tentare” di più negli acuti, uscendo dall’interpretazione canonica del genere, tralasciando le tonalità grevi e spingendosi oltre, visto che i numeri li possiede.

In definitiva, comunque, gli Holy Martyr irrompono sul mercato con un disco massiccio e diretto, che è poi quello che conta, a partire dalla copertina, che non si perde in fronzoli grafici d’effetto.

Stefano “Steven Rich” Ricetti   

 

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