Recensione: Sting In The Tail
1972-2010: 38 anni di onoratissima carriera discografica, addirittura 45 se s’inizia a contare dall’anno della fondazione, 18 album da studio più un ingente numero di singoli, live, raccolte e dvd, per un totale di qualche decina di milioni di copie vendute in tutto il mondo fino ad oggi. Numeri da capogiro, ma trattandosi degli Scorpions, tutto o quasi appare possibile.
Su gruppi così longevi e popolari si è soliti dire e scrivere tutto e il contrario di tutto, da chi li ha sempre trovati troppo “semplici” e orecchiabili, indegni di finire nel pantheon del rock che conta, a chi, nonostante tutto, li ha sempre ammirati per la loro innegabile capacità di scrivere grandi canzoni di hard rock melodico e “Sting In The Tail”, di certo, non contribuirà a far cambiare idea né ai detrattori né ai sostenitori.
Dagli esordi, con la Schenker family al gran completo, passando per il periodo settantiano nel segno di Uli Jon Roth e per tutti gli anni ’80, culminati nella pubblicazione della celeberrima “Wind Of Change”, fino ai giorni nostri, il sound della band di Hannover si è certamente evoluto, assorbendo di volta in volta gli umori e le influenze dell’epoca e, ora più che mai, appare chiaro che la forza di un ensemble così “storico” risieda nel tenersi sempre al passo coi tempi senza tuttavia tradire mai la propria natura.
In effetti, al contrario del precedente “Humanity: Hour 1”, a detta di chi scrive un apprezzabile tentativo di restyling sonoro, forse un po’ penalizzato da un songwriting troppo oscuro e monocorde, “Sting In The Tail” è un lavoro in puro stile Scorpions, caratterizzato dal consueto compromesso tra potenza e melodia in cui tuttora (e lo dimostra il gradimento ricevuto in questi giorni sui mercati europei e americani) miriadi di fan si riconoscono.
Le chitarre hanno un bel taglio, moderno ma equilibrato, i riff ricalcano lo stile tipico della premiata ditta Schenker/Jabs e la voce di Klaus Meine si mantiene su livelli altissimi a dispetto dell’età e degli anni passati on stage. Quale modo migliore, dunque, per congedarsi dalle scene di un album in grado di rievocare il passato glorioso di capolavori come quelli della mitica cinquina inaugurata da “Lovedrive” e conclusa da “Savage Amusement”, pur senza ignorare le novità introdotte dell’ottimo “Unbreakable”?
L’iniziale “Raised On Rock” è un pezzo classico ma, al tempo stesso tutt’altro che vetusto, con un riff saltellante e un divertente sottofondo di Talk Box, a seguire la title track, tosta e gagliarda quanto serve e provvista di un ritornello a presa rapida.
“Slave Me” è forse il brano più brutale in scaletta, breve e fortemente ritmato, animato da un motivo oscuro ma efficace. Tuttavia è la successiva “The Good Die Young” a meritarsi una citazione in solitaria: l’intro fa pensare ad una semi-ballata, ma il testo, crudo e diretto, recitato nelle strofe da un superbo Klaus Meine e un crescendo strumentale solenne ed intenso, spianano la strada ad un refrain dai toni quasi epici intonato in duetto con l’ex-Nightwish Tarja Turunen; senza dubbio l’highlight assoluto di tutto il disco.
Il ritmo delle pulsazioni sale con le spettacolari “No Limit” e “Rock Zone”, due schegge di hard ‘n’ heavy teutonico come solo Meine & C. hanno saputo fare: la migliore testimonianza dello stato di forma di una band capace di infondere in ogni singola nota una carica che moltissimi altri act ben più giovani possono al più osservare da lontano con il binocolo.
La mesta “Lorelei”, molto più vicina alla nuova “Maybe I, Maybe You” che ad una “Believe” o ad una “Lady Starlight”, è la prima di tre ballate e, pur risultando complessivamente gradevole, denota la mancanza di un vero e proprio punto di forza, in termini d’atmosfera, arrangiamento o prestazione dei singoli.
“Turn You On” sprizza energia e passione da tutti i pori ed è addirittura commovente ascoltare l’inarrivabile voce di Meine intonare quel “Come On, Let The Show Begin!”, sorta di manifesto della volontà di non mollare mai, mentre la splendida “SLY”, dal grande tema melodico e dai pertinentissimi interventi chitarristici da parte di Jabs e Schenker, rinverdisce la tradizione dei leggendari lenti di casa Scorpions.
In mezzo a tante lodi è altrettanto doveroso citare l’autoreferenziale “Spirit Of Rock”, alla lunga stucchevole e un po’ noiosetta.
Fortunatamente la chiusura in grande stile è riservata alla struggente, ma al contempo speranzosa, “The Best Is Yet To Come”, un vero e proprio tuffo al cuore per i fan di vecchia data, probabilmente alle prese con l’ultimo brano targato Scorpions.
I sentimenti nel recensire un album del genere sono duplici, da un lato la grande soddisfazione per una band capace di andarsene con classe e di regalare ai fan un biglietto d’addio di assoluto valore, dall’altro lato una buona dose di malinconia, la stessa che si prova quando si perde qualcosa di caro, qualcosa che ti ha accompagnato per anni e che, come tutto quanto, è destinato prima o poi a finire.
Grazie Scorpions, è stato davvero amore al primo morso…
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Line Up:
Klaus Meine – Voce
Rudolf Schenker – Chitarra
Matthias Jabs – Chitarra
Pawel Macinoda – Basso
James Kottak – Batteria
Tracklist:
01 – Raised On Rock
02 – Sting In The Tail
03 – Slave Me
04 – The Good Die Young
05 – No Limit
06 – Rock Zone
07 – Lorelei
08 – Turn You On
09 – Let’s Rock
10 – SLY
11 – Spirit Of Rock
12 – The Best Is Yet To Come