Recensione: Stonehymn

Di Stefano Usardi - 31 Maggio 2017 - 9:06
Stonehymn
Band: Wind Rose
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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77

Terzo album per i pisani Wind Rose che, a due anni da “Wardens of the West Wind” sfornano questo “Stonehymn”: l’italico quintetto, da sempre affascinato dall’opera di J.R.R. Tolkien, decide di affiancare al canonico tema fantasy descritto ne Lo Hobbit (e chiaramente avvertibile in tracce come “To Erebor”) una serie di temi e profumi più accostabili agli spaghetti-western e all’immaginario sciamanico degli indiani d’America, inserendo nel power metal melodico e trionfale finora proposto atmosfere più tipicamente etniche, accorpandosi alla cospicua schiera di gruppi power-folk che da un po’ di anni a questa parte sembrano andare per la maggiore. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma il ferro va battuto finché caldo, soprattutto quando la proposta si mantiene su un livello qualitativo di tutto rispetto come nel caso, appunto, di “Stonehymn”, capace di dire la sua grazie a melodie accattivanti, ritmi agguerriti, riff muscolari e cori possenti dispensati a piene mani.

Dopo l’intro di ordinanza si parte con la spettacolare “Dance of Fire”, in cui fin da subito si mettono in luce le caratteristiche tipiche di questo lavoro: melodie arrembanti ed enfatiche e un livello di esaltazione degno dei migliori Turisas si intrecciano a momenti più rilassati e contemplativi (dal flavour morriconiano) e siparietti più danzerecci, il tutto condito dalle onnipresenti tastiere, dai cori a cui accennavo prima e dall’interessante prova di Francesco alla voce. Il finale, più disteso, riprende l’intro e sfuma in “Under the Stone” in cui, dopo una prima parte decisamente possente e un brevissimo intermezzo scanzonato, i nostri puntano su melodie vagamente piratesche, miscelandole al trionfalismo magniloquente ed enfatico nella seconda parte e nel finale del brano. Una melodia di flauto introduce la già citata “To Erebor”, anch’essa debitrice dell’opera dei Turisas, in cui la componente nanesca del gruppo prende il sopravvento ed esplode nella tipica traccia caciarona e spensierata da cantare a squarciagola, sorretta da melodie popolari ispessite da qualche bel riffone ignorante che non deve mai mancare.
The Returning Race” parte con lo scoppiettio di un bivacco e la voce gagliardamente gracchiante di Francesco, a sua volta accompagnata da una chitarra acustica. L’atmosfera da “ballata intorno al fuoco” permane per tutta la durata del brano, sebbene il suo incedere prenda corpo e si faccia più articolato innestando, sulla classica impalcatura finora incontrata fatta di cori trionfali da tutte le parti e melodie facilmente assimilabili, alcuni fraseggi più folklorici e un paio di intrecci davvero ben riusciti, contribuendo a confezionare uno degli episodi più interessanti dell’album. “The Animist” è una seconda intro piuttosto superflua, mentre con la successiva “The Wolves’ Call” la proposta dei Wind Rose si alimenta di nuova energia, caricando la traccia con atmosfere cinematografiche che si mescolano alla solita enfasi. L’apoteosi trionfale del disco trova qui il suo apice, complici un andamento anthemico (seppur condito da qualche sporadica accelerazione) e cori più cavallereschi del solito. “Fallen Timbers” torna alle melodie danzerecce e le carica con la solita tamarraggine corale, mantenendosi a metà strada tra il serio e il faceto e instillando qua e là gocce di distesa e bucolica solennità, mentre è con la conclusiva “The Eyes of the Mountain” che i nostri rompono gli argini, giocandosi il tutto per tutto e pompando cori epici e melodie tracotanti a pioggia per congedarsi dal loro pubblico con la giusta carica trionfale. A dispetto del resto della traccia, tuttavia, il finale riserva una piccola sorpresa, distendendosi con calma e una certa dose di eleganza e chiudendo con classe un album caratterizzato da un approccio decisamente enfatico.

Il principale pregio di “Stonehymn” è sicuramente la sua immediatezza: l’album attira subito e avvince l’ascoltatore grazie alle continue scorribande tastieristiche, all’attitudine positiva e ad un’esecuzione di ciascun brano assolutamente inappuntabile, tutti punti che di sicuro risulteranno fondamentali durante i concerti. Il suo principale problema, invece, è dato a mio modestissimo avviso da una certa monotematicità di fondo: i nostri colpiscono quasi sempre nello stesso punto, martellando instancabilmente l’ascoltatore con melodie maestose e la carica epica di cori che, seppur ben eseguiti e dal giusto tiro, risultano in qualche occasione fin troppo soffocanti, uniformando alcune tracce senza dar loro lo spazio per spiccare il volo e togliendo incisività anche agli inserti di musica pellerossa, per quanto azzeccati e ben inseriti nel contesto di ogni brano. Peccato, perché secondo me con un po’ di audacia in più e un po’ di impetuosità in meno si sarebbe arrivati veramente al colpaccio; cionondimeno mi sento comunque di affermare che “Stonehymn” è decisamente un bel disco, carico e propositivo, che come detto in apertura può tranquillamente dire la sua nell’affollata scena power odierna, anche se forse si poteva osare qualcosina di più.

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