Recensione: Stone’s Reach

Di Francesco Sorricaro - 17 Febbraio 2010 - 0:00
Stone’s Reach
Band: Be’lakor
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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78

Ancora una realtà di grande interesse proveniente dal continente oceanico: terra che, fino a poco tempo fa, era conosciuta, in ambito metal, per AC/DC e pochi altri, se non solamente per loro, a volte. Per quanto mi riguarda, confesso che sto cominciando a diventare un grande fan di quella scena così lontana, vista la qualità delle proposte che è capace di generare oggigiorno. 

Questi Be’lakor (che prendono il monicker dal principe demone del noto gioco di ruolo Warhammer) provengono da Melbourne ma sono fautori di un sound che definire europeo è dir poco. Ascoltando il loro primo disco The Frail Tide del 2004, per esempio, chiunque avrebbe potuto addirittura definirli come gli At the Gates australiani, per quanto forte era l’influenza di Tompa Lindberg e soci in quelle prime note ufficiali, peraltro realizzate con grande proprietà di mezzi dai cinque aussie.

Stone’s Reach, è solo il secondo album, ma mostra già una maturità maggiore ed una certa consapevolezza del proprio valore che, inevitabilmente, un giorno porterà alla definizione di una propria direzione, uno stile riconoscibile che, ora, sta solo pian piano uscendo dalla nebbia. Proprio la nebbia sembra essere una delle associazioni mentali appropriate per richiamare l’attuale musica dei Be’lakor: un death metal melodico, con cantato perennemente gutturale, sempre fortemente influenzato dalla scuola scandinava, ma arricchito, questa volta, da atmosfere scure e vaporose ed improvvisi, malinconici rallentamenti, che potrebbero richiamare un’altra grande band svedese come gli Opeth.

La proposta, va detto, di sicuro non è niente di particolarmente originale, ma gli otto brani di questo disco, se ascoltati senza pregiudizi, mettono in luce dei giovani musicisti di grande valore. Fin dall’opener Venator si nota uno studio più approfondito sulle chitarre, mai così variegate nei riff della coppia Shaun Sykes/George Kosmas: classicamente heavy metal nei solo, dedite ad accellerazioni tempestose in puro stile death a scandire i tempi frenetici dei pezzi, ma anche protagoniste di momenti di rara eleganza quando, ad esempio, disegnano calde armonie di chitarra classica, che vedono il loro massimo esempio in Husks: sporadico episodio acustico e mosca bianca di brevità, in mezzo ad una tracklist che oltrepassa i 7 minuti di durata media delle tracce (un trend che segue peraltro un marchio di fabbrica presente in parte anche sul precedente lavoro). Quest’ultima caratteristica può far storcere il naso a molti, perchè la prolissità il più delle volte è indice di noia, ma le trame dei brani, ricche di bellissimi riff e di improvvisi scatti di furia schizofrenica degni dei migliori Mastodon, ad orecchie non superficiali sembreranno scorrere con più scioglievolezza di quanto si creda.

Un aspetto da migliorare in futuro, invece, sarà sicuramente la scarsa imprevedibilità strutturale all’interno di brani che, di base, hanno incipit e finali molto simili tra loro; in particolare di questi ultimi sono sempre protagoniste le tastiere di Steve Merry, autore di atmosferici tappeti di sottofondo dal gusto nordico che non spiccano mai più del dovuto, finchè il nostro non deve assolvere all’arduo compito, con morbidi e delicati frammenti musicali, di acquietare immancabilmente le acque agitate dai suoi compagni durante lo scorrere di pezzi peraltro molto epici in sè per sè come Outlive the hand e Sun’s delusion. Uno spiraglio è lasciato in questo senso dalla conclusiva, mastodontica, Countless Skies, ricca di cambiamenti di ritmo e di frequenti variazioni nella partitura, dove le latenti influenze At the Gates vengono centrifugate in un esaltante masterpiece dal sapore progressive, e dove viene messo a dura prova l’ottimo drummer Jimmy Vanden Broeck: sempre carico e preciso anche a grandi velocità, il quale, purtroppo, non sempre ha visto il suo lavoro esaltato dalla produzione del disco che presenta qualche sbavatura nei volumi della sessione ritmica in favore delle chitarre e della potente voce dello stesso Kosmas.

La strada per i Be’lakor mi sembra decisamente quella giusta; nonostante qualche piccolo difetto da limare, questi cinque australiani hanno sfoderato un disco di caratura non indifferente, che stupisce per la sua accuratezza se si considera la giovane età dei suoi autori, e che verrà facilmente apprezzato qui in Europa, aprendogli probabilmente la strada magari per un piccolo tour anche in questo emisfero; la speranza è che la loro evoluzione non si fermi con questi piccoli riconoscimenti e che continui sulle orme (ma non troppo!) dei mostri sacri che li hanno pesantemente influenzati.

Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro

 

Tracklist
1. Venator  08:37
2. From Scythe to Sceptre  06:58
3. Outlive the Hand  08:39 
4. Sun’s Delusion  09:09
5. Held in Hollows  07:24
6. Husks  02:48
7. Aspect  05:52
8. Countless Skies  10:00

Durata totale  59:27

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