Recensione: Stop at Nothing

Di Alberto Fittarelli - 6 Giugno 2003 - 0:00
Stop at Nothing
Band: Dying Fetus
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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80

Stop at nothing è l’eloquente titolo della nuova fatica dei Dying Fetus, sicuramente uno dei dischi più attesi nell’underground brutal americano: e per fortuna la band non delude, va al di là degli sconvolgimenti che ha dovuto sopportare e ci consegna un altro disco di eccellente fattura.

Come forse saprete questi ragazzi americano sono tutt’altro che dei novellini, essendo in attività sin dal 1991 ed avendo sfornato la bellezza di 4 full-lenghts e vari EP prima di questo album; la direzione musicale seguita è sempre stata incentrata su di un brutal death infarcito di componenti hardcore, tecnicismi e grande groove, rendendo così la proposta davvero variegata e dinamica: caratteristiche che erano emerse al meglio sul precedente lavoro, quel Destroy the opposition che aveva suscitato grande scalpore nella scena death. Quel disco era infatti l’esempio perfetto della possibilità di evoluzione per un genere notoriamente ultra-conservatore, ai limiti dell’immobilismo. Le ottime impressioni erano state poi confermate da delle grandissime prestazioni live, in cui la band oscurava addirittura le band headliners nonostante avesse dovuto cambiare i 4/5 della propria formazione (l’unico rimasto è il leader John Gallagher).
E questo nuovo album riprende il discorso da dove l’avevano lasciato col suo predecessore, regelandoci di volta in volta perle di death metal brutale ma in qualche modo addirittura “catchy”, ritmicamente orecchiabile, qualcosa che esca dai soffocanti canoni floridiani per amalgamare al meglio certo sound europeo (il riffone blackeggiante di Vengeance Unleashed), l’hardcore di Brooklyn (da sentire il chorus di Forced Elimination) e certo thrash Bay Area style sparso qua e là ad imbastardire i riff di chitarra.

La tecnica della band è assolutamente ineccepibile, ma viene utilizzata per costruire al meglio la forma-canzone, senza l’onanismo di alcuni loro connazionali; e bisogna per forza elogiare le singole performances dei musicisti: su tutti il leader Gallagher con un lavoro di chitarra splendido ma soprattutto il suo growl catacombale, perfetto nel contrasto con le parti più “chiare” ed aggressive di Vince Matthews. La sezione ritmica, poi, è quanto di più compatto ed affiatato possiate trovare sulla scena, con una menzione particolare al batterista Erik Sayenga, davvero abile nel costruire su cambi di tempo particolari le complesse strutture delle canzoni (peccato solo per dei suoni appena un po’ troppo secchi, che non sempre rendono merito al suo lavoro).
In generale possiamo quindi parlare di un must per tutti i death metal fans: se lo rapportiamo al suo predecessore dobbiamo ammettere che, scemando l’effetto sorpresa, lo stile musicale si è assestato su caratteristiche a noi già note; ma la classe con cui questi ragazzi ci propongono 8 perle di cattiveria, caos ragionato e potenza è semplicemente ineguagliabile, al momento, da qualsiasi altro gruppo.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

Tracklist:

1. Schematics
2. One shot, one kill
3. Institutions of deceit
4. Abandon all hope
5. Forced elimination
6. Stop at nothing
7. Onslaught of malice
8. Vengeance unleashed

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