Recensione: Stories from a Lost Realm, Pt. 2
O bellezza mortale,
O bellezza vitale,
poiché sí tosto un core
per te rinasce, e per te nato more.
(C. Monteverdi, Il quarto libro de madrigali a cinque voci)
Seconda parte delle Storie da un regno perduto, a cinque anni di distanza dal primo capitolo (di una probabile trilogia), per i goth-metaller bulgari The A.X.E. Project, attivi dal 1994 con il semplice acronimo A.X.E. L’album è stato pubblicato lo scorso novembre dall’etichetta spagnola Art Gates records, specializzata in gothic, death e thrash. L’artwork è raffinato, i testi (a cura del bassista Rosen Georgiev) non peccano di eccessiva banalità, la musica, tuttavia, si rivela derivativa e poco coinvolgente.
Dopo un bell’intro orchestrale, l’opener “Fear the angel” è diretto e presenta un’alternanza di voci, clean femminile e growl maschile. Sembra di ascoltare, ovviamente in tono minore, i primi After Forever, ma anche gli italiani Ainur, un filo più cattivi. Le armonie sono ariose e solenni, il basso pulsante; le ritmiche di chitarra elettrica, invece, risultano penalizzate da un missaggio non eccezionale, allo stesso modo la voce di Petya Plukchieva manca di un po’ di grinta. L’assolo della 6-corde si compone di buoni abbellimenti, quello di tastiera pure. Il finale di brano è da dimenticare, con acuti maschili inascoltabili. “Sunrise” strizza l’occhio ai primi Nightwish e agli Stratovarius di Jens Johansson. Il testo è tratto da un madrigale di Claudio Monteverdi, gloria nazionale italiana che ha traghettato la storia della musica d’arte dal ‘500 al ‘600 (riportiamo in apertura di recensione i versi espunti dalla band bulgara). A metà brano l’assolo di tastiera è ficcante e sbarazzino.
“Camleot”, brano ispirato a The Lady of Shalott di Alfred Tennyson è una composizione variegata, con inserti di chitarra acustica latamente opethiani. Il guitarwork di Martin Emilov è tecnico e ispirato, il growl sussurrato pecca di eccessiva monotonia. Bella, invece, la coda di pianoforte. Senza soluzione di continuità, con trillo di usignoli e fluato traverso, attacca “The Prisoner”, ballad quieta e rinfrancante (anche se il ritmo di batteria è un andante) per sola clean voice maschile.
Torna il metal con “Ancient Earth Suite”, brano più lungo in scaletta. Inizio al fulmicotone, poi un break blindguardiano. I cambi di tempo e atmosfera scorrono in modo scorrevole, con inserti di flauto dal respiro pseudo-folk, assoli metal, unisoni e drumwork martellante (Petrov nelle foto promozionali indossa una maglietta dei Dream Theater). Ciò che manca è un pizzico di precisione e incisività in più.
Ritroviamo il growl all’inizio di “Frozen Eyes”, pezzo senza infamia e senza lode, che sembra uscire direttamente dagli anni Novanta. L’album si chiude con “Highway to Eternity”, ultimi otto minuti di synth di matrice finnica (“Hunting high and low” dei summenzionati Stratovarius?) e la voce, non indimenticabile, di Tsvetelina Kirilova. Gli ultimi due minuti e mezzo sono un outro in pianissimo che riprende il soundscape fatato dell’intro.
Che dire? I metaller bulgari tentano di rivitalizzare un genere metal, il gothic, che ormai risulta anacronistico. Passati gli anni bui e ispirati dell’ultimo soffio vitale del XX secolo, oggi sarebbe più utile tentare di proporre un sound più originale, magari con qualche ibridazione vincente. Non basta qualche rimando colto (Monteverdi, Tennyson) per assegnare al full-length più di una sufficienza di misura.
Roberto Gelmi (sc. Rhdamanthys)