Recensione: stOrk

Di Valter Pesci - 1 Gennaio 2015 - 14:00
stOrk
Band: stOrk
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2011
Nazione:
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87

Di gruppi progressive metal ce ne sono tanti oggigiorno, ne abbiamo constatato l’esponenziale proliferazione da quando i totem incontrastati del genere (ovviamente mi riferisco ai Dream Theater), lo hanno sdoganato e fatto conoscere, a partire del loro debutto nel 1989.
Come detto, le band si sono susseguite nel corso degli anni, alcune si sono imposte, altre sono scomparse in breve tempo, altre ancora navigano nell’underground. Inevitabilmente, quando in tanti si cimentano in un determinato settore, il rischio di incappare in una massa di gruppi-sosia l’uno con l’altro, troppo omogenea, sterile e che sconfina nell’anonimato, è veramente troppo alto se non assicurato.
Bene, potete stare certi che questo non è il caso.

Basta scorrere la line-up della band per rendersi conto che qui si fa sul serio. Quello che probabilmente è il più grande batterista del mondo, Thomas Lang, ingaggia l’eccentrico e virtuoso Shane Gibson (ex-chitarrista dei Korn) e la cosa non può che promettere originalità e qualità. Il progetto è (quasi) totalmente strumentale: ai due si aggiunge il bassista di nicchia Eloy Palacios per completare il trio che prende il nome di stOrk (letteralmente vale ‘cicogna’).

Veniamo quindi al dunque. È il 2011 quando esce (per MUSO Entertainment) la prima fatica di questo super-gruppo, l’omonimo album “stOrk” .
L’album si apre con “Moonrock”, immediatamente si intuisce che il lavoro verterà su sonorità cupe e compatte (grazie anche all’accordatura ribassata) e che la sezione ritmica non sarà lineare, tutt’altro. Il pezzo è probabilmente uno dei più catchy dell’intero album ed è caratterizzato da un riff accattivante e assai musicale sul quale il nostro Shane non esita a inserire ulteriori linee melodiche; la sezione centrale del brano viene ritmicamente sconvolta dal maestro dietro alle pelli, il quale entra in scena a modo suo, sciorinando mostruosità varie in tempi complessi, mentre il compagno di scorribande si prodiga in soli di chitarra virtuosi e di grande impatto tecnico/compositivo. Dopo questo assaggio di paradiso, il riff principale torna a prendere per mano la traccia trascinandola verso la conclusione.
Doooosh” comincia a complicare ulteriormente il contesto: tempi dispari enfatizzati, riff malati e parti solistiche che sfiorano la cacofonia, condite da sweep e alternate picking a dir poco alieni, che continuano a strizzare l’occhio a un raffinato neoclassicismo portato all’eccellenza, così come di un altro pianeta continua ad essere il drumming del gigante austriaco.
Rimanendo in tema extra-terrestre, arriviamo alla terza traccia: “Alien” rappresenta una rarità nell’economia del disco, infatti ci troviamo di fronte all’unica canzone “cantata” (da Gibson e JP Von Hitchburg) dell’intero lavoro. Il pezzo si apre proprio con una strofa di sola voce, super-effettata, proveniente direttamente dallo spazio più profondo la quale si alterna a un paio d’inaspettati break melodici in voce pulita. Strumentalmente, inutile ribadire l’incredibile complessità strutturale, arricchita da varie sovraincisioni incastonate ad arte in un sound trascinante. Sempre degno di nota l’utilizzo magistrale di uno dei più estremi sweep-picking mai sentiti, talmente articolato e versatile che viene a tratti quasi sostituito alla ritmica vera e propria.
Giungiamo ora a “Changing Lanes”. A mio avviso il pezzo che meglio racchiude l’essenza di questo progetto e senza dubbio il più complesso dell’album. Si prosegue col “mode tempi dispari” sempre inserito, continuando ad alzare l’asticella della complessità. Oltre ai tempi folli impiegati da TL e alle solite cascate di note che il nostro Shane riesce sempre a connotare col suo inconfondibile stile, apocalittico misto di catastrofismo e sentenziosa ineluttabilità, trova spazio anche un riff stile death metal. Se, giunti all’improvviso termine del pezzo, vi ritroverete agghiacciati per un paio di secondi come se uno tsunami gelido vi travolgesse, non preoccupatevi. È del tutto legittimo.
Nautilus”. Qui la scena è un po’ più sgombra: il tappeto ritmico è, se vogliamo, più lineare ma soprattutto meno zeppo di elementi rispetto i precedenti. Viene così lasciata al centro dell’attenzione la otto corde di Mr. Gibson, il quale sfodera un azzeccato ed inedito effetto whammy e un tapping degno di nota.
Ed ecco raggiunta la metà esatta del cd con “Prelude In The Key Of Shut The Hell Up”, 40 secondi scarsi di matrice gibsoniana, un anello di congiunzione tra le due parti del disco spiccatamente di stampo neoclassico, che somiglia molto a un compendio della maestria di artisti quali Jason Becker, Malmsteen e Paul Gilbert. D’altronde, le influenze dell’ex-Korn risultavano già abbastanza chiare.
Loki” inaugura la seconda parte del cd ripartendo dai capi saldi del pensiero “storkiano”, tempi improponibili, sonorità cupe e ritmiche serrate intramezzate da break melodici. Verso il finale un breve assolo “Petrucci-style” e il solito scomponimento millimetrico della tempistica ci conducono al final cut del brano.
Arriviamo ora a “DucksInAPond”. Parlavamo delle chiare influenze di Gibson? Beh qui le ritroviamo e sono più evidenti che mai. Infatti, dal consueto articolatissimo contesto spunta in più di un’occasione il tema centrale del pezzo: il ritmo si fa improvvisamente lineare lasciando spazio al più accademico dei lick neoclassici, in puro stile Malmsteen (di una semplicità strutturale che a dire il vero non ci si aspetterebbe a questo punto dell’album).
Ci si avvicina all’ultima parte del disco, la traccia numero 9 è la schiacciasassi “Metal Fatigue” (voluto il rimando ad Allan Holdsworth?). Il titolo scelto non lascia adito a fraintendimenti. Un blast beat infernale ci accompagna per quasi tutto il pezzo, alternato ad altri virtuosismi assortiti provenienti da galassie sconosciute da parte del nostro Thomas… Per quanto riguarda la linea di chitarra, Shane continua a proporre sweep su sweep, tanto complessi quanto funzionali alla struttura complessiva della canzone. Una vera bomba death/progressiva.
Siamo ora a “Asian Manipulation”. È veramente un’impresa cercare di descrivere tanta maestria e ricercatezza. Il tema portante, a dir poco “fuori di testa”, gioca con le ottave in stile Mattias Eklundh saltellando sopra un tappeto ritmico tortuoso e intricato, strizzando compiacente un occhio alla sopracitata cacofonia. Come se non bastasse a pietrificare l’ascoltatore quanto sentito finora, la sezione centrale viene ulteriormente stravolta, capovolta, sezionata e riassemblata con cambi di tempo assurdi, in un crescendo di virtuosismi tali da far impallidire chiunque.
Ancora un po’ scossi da questa esperienza sensoriale, proseguiamo all’ascolto della successiva “Emo Village Pillage”. Si tratta di una canzone molto più guitar-oriented, infatti la mente indubbiamente malata, ma altrettanto geniale, di SG partorisce una sequenza di sweep ultraterreni (ebbene sì, ancora una volta, d’altronde trattasi della specialità della casa), che accompagnano l’intero pezzo variando anche in bpm. Il segmento centrale è un tripudio di tapping con salti di corda che sfiorano l’atonale e rimandano con la mente a maestri del settore quali Shawn Lane, Steve Vai e Buckethead; tutto questo, misto a shreddate che nessun chitarrista o aspirante tale dovrebbe mai trovare il coraggio di ascoltare, l’autostima non ne gioverebbe.
Ormai totalmente “sverniciati” da questo magnum opus, arriviamo ad affrontare l’ultima traccia con lo spirito di quelli che pensano che ormai niente e nessuno possa più impressionarli… Niente di più sbagliato! Con questi tre non bisogna mai abbassare la guardia.
Tripola”. La minacciosa intro orchestrata (che continuerà in loop per tutta la durata del pezzo, in sottofondo), induce ad aspettarsi ancora una volta qualcosa di belligerante e proseguendo con l’ascolto ne avremo la conferma. Se nella precedente track a scendere prepotentemente in campo era l’axemaster, ora è giunto il turno del miglior drummer al mondo prendersi uno spazio un po’ più “evidente” del solito, ritagliandosi un minutino in cui mette in mostra un po’ del suo repertorio. Mentre cercate di recuperare le facoltà cognitive bombardate da tutta questa magnificenza, il riff storto iniziale riaffiora portando alla conclusione il brano e così anche il disco.

Come dicevo in apertura, di cd e gruppi progressive più o meno articolati ne sono sorti tanti negli ultimi due decenni, ma una cosa è certa: gli stOrk con la release di questo stupefacente debut si sono prepotentemente imposti come il gruppo più “estremo” e coraggioso dell’intero panorama prog. contemporaneo. Un sound cupo, a dir poco corposo, compatto e pieno zeppo di tutto (o quasi…) quello che un musicista può mettere in musica; un drumming che si ristabilisce come punto di riferimento per chiunque voglia impugnare un paio di bacchette in modo serio e applicato; un songwriting di un’altra categoria e la piazza ideale per far finalmente affiorare tutto quello di cui è capace un chitarrista come Shane Gibson (troppo fuori dagli schemi per essere noto al mondo soltanto come membro dei Korn). Insomma, un cd sicuramente non rivolto ad un vasto pubblico per la sua complessità generale, ma allo stesso tempo un must per chi ha determinate esigenze in ambito musicale. Dal 2011, se cerchi progressive che si spinga oltre ogni limite umano, sai dove rivolgerti.

 

Valter Pesci

 

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