Recensione: Storm
E venne il giorno di un album dei Theatre Of Tragedy senza Liv Kristine dietro i microfoni. Meno di una decade percorsa assieme ma di una intensità pazzesca. La Espenaes è sul palcoscenico del Teatro fin dal suo demo del 2004, si fa carico con i ragazzi di dar corso ad uno dei primissimi esperimenti di death/doom metal con una voce femminile quasi soprano, la sua. I T.O.T. tracciano un solco importante e profondissimo, due dischi (fondamentali) e poi iniziano a volare, è il turno del capolavoro “Aegis” (’98), poi della temeraria svolta elettronica con la doppietta birichina “Musique” (’00) e “Assembly” (’02). Proprio con l’album del 2002 termina la coesistenza dei Tragedy con Liv Kristine, licenziata abrupto a mezzo stampa, tant’è che la cantante di Stavanger lo apprese via internet. Accasatasi (anche matrimonialmente) con Alexander Krull ed i suoi Atrocity, è noto che la sua carriera è poi proseguita tra quella band ed i Leaves’ Eyes – fondati appositamente sul suo nome – oltre a svariati dischi solisti. Oggi Liv non è neppure più la signora Krull ma non per questo ha smesso di frequentare gli studi di registrazione e pubblicare materiale. E i Theatre Of Tragedy? All’indomani di “Assembly” c’erano diverse tessere del mosaico da rimettere al proprio posto. La svolta avanguardista non era stata granché digerita dai fans, né particolarmente lodata dalla stampa specializzata. Rohonyi, dalla cabina di pilotaggio della band, considerò di tornare qualche passo indietro; se non era più il tempo del death/doom e della drammatica dialettica narrativa tra la bella e la bestia, si poteva perlomeno recuperare certe atmosfere gotiche e malinconiche che certamente appartenevano al songbook dei Tragedy, basti pensare ad “Aegis“, da molti ritenuto il miglior lavoro del gruppo. Ecco individuato il punto di ripartenza. Ora non rimaneva che arruolare una sostituta di Liv, che fosse all’altezza ma che, al contempo, non suonasse come un clone della cantante appena mandata via (ed in malo modo). La scelta ricadde sulla (quasi) anonima Nell Sigland, pescata dai The Crest, due album all’attivo tra 2002 e 2005.
Anno domini 2006, i Tragedy tornano discograficamente con “Storm“, album che creò una certa aspettativa, vuoi per la caratura della band, vuoi per la curiosità di scoprire quanto avessero retto il colpo del cambio di front-woman. Non che Liv Kristine avesse una voce unica ed irripetibile, non si trattava della Callas e nemmeno, più prosaicamente, di una novella Ann Wilson; tuttavia è indubbio che la norvegese abbia carisma, empatia, talento, e che fosse del tutto adeguata alle architetture sonore ed alle atmosfere dei Tragedy, la (succosissima) ciliegina su quella torta. Oggettivamente cacciarla sembrò in tutto e per tutto un autogol, un po’ come il marito che si taglia gli attributi pur di non farne trarre beneficio alla moglie. Per altro la Espenaes parallelamente viaggiava a gonfie vele tra proprie band ed ospitate richiestissime a destra e a manca (Cradle Of Filth, Delain, Umbra Et Imago, Hortus Animae, Immortal Rites, Genius). Fatto sta, che il 24 marzo 2006 le danze si aprono con “Storm“, title-track del sesto album dei Theatre Of Tragedy. In tutta onestà il pezzo si rivela da subito grandioso, potentissimo, gotico, affatto zuccheroso o mellifluo, anzi teso, nervoso ed attaccabrighe, soprattutto nelle strofe, dove Rohonyi tesse la sua tela, mentre sotto la sua voce campionata un riffing spigoloso e scorbutico fa saltellare la canzone. Il chorus è un’esplosione fragorosa, esattamente quella “tempesta” che si sta avvicinando e che getta elettroni nell’aria a piene mani. La Sigland pare perfettamente a proprio agio e per fortuna non scatta l’effetto avatar con la Espenaes, Nell è tanto diversa nell’impostazione vocale (meno fatata e più concreta, anche se ugualmente morbida e calda nelle sue tonalità) quanto nell’aspetto, corvina anziché bionda, più strega che ninfa.
Usciti da questo incipit parrebbe di aver fatto bingo, i T.O.T. forse sono riusciti nel miracolo di aver tenuto botta ed addirittura scritto un (ennesimo) ottimo album. “Silence” e “Ashes And Dreams“, a seguire, sono due pezzi più che discreti. L’effetto bombastico della opener inevitabilmente scema, ma il songwriting si mantiene solido. E’ evidente come “Storm” (la canzone) andasse in cerca di un uncino che fosse il più catchy possibile (riuscendovi per altro al 200%), mentre da ora in poi la scaletta si mette diligentemente a lavoro, con meno fuochi d’artificio e più lavoro pancia a terra. Proseguendo di traccia in traccia, “Begin And End” si rivela un altro momento assai gradevole dello spettacolo, ma anche “Voices” o “Fade“. E’ anche vero che scavallata oramai la metà della scaletta, l’impressione di un fortissimo dislivello tra la title-track ed il resto della produzione del disco salta marchianamente all’orecchio. Fossero state tutte come quella, avremmo avuto un album da 10/10. Ma non è così. E “Storm” non è nemmeno all’altezza di competere con la passata discografia dei Tragedy. Diventa seduta stante il loro album più debole, il che tutto sommato era fisiologicamente prevedibile. Attenzione però, l’ultimo dei loro, non un album fallimentare in sé e per sé. “Storm” è un lavoro di grandissima classe ed eleganza, prodotto magnificamente, limato in ogni aspetto, di grande mestiere, ma non ha dalla sua la forza del songwriting che aveva assistito la band fino al 2002. Non si può imputare alcuna colpa alla Sigland, che svolge il suo compito egregiamente e aggiunge valore al risultato finale; ha solo un deficit, non è Liv Kristine. Appare evidente come talvolta l’unione di due addendi dia una somma inaspettata. Theatre Of Tragedy + Liv (come del resto Nightwish + Tarja) dava 3 anziché 2. Se invece si considerano le rispettive carriere soliste, la stessa magia algebrica non si verifica, segno inequivocabile che agli uni mancano gli altri e viceversa.
Poiché, come detto, la Sigland non poteva avere nessuna colpa – né Liv Kristine ha mai avuto un effettivo ruolo segnante nella direzione stilistica della band – il male dei Theatre Of Tragedy era indigeno, albergava dentro loro stessi, la band si stava evidentemente spegnendo, si avviava al tramonto, ed il cambio di singer era un sintomo e non la causa di tale consunzione. Il successivo “Forever Is The World” ne fu la conferma, ultimo album prima dello scioglimento e, se possibile, ancora meno ispirato di “Storm“. A conti fatti, se uno non avesse mai neppure sentito nominare i T.O.T., questo capitolo discografico del 2006 sarebbe un album da avere, per la sua estrema buona maniera nell’essere acconciato, eseguito e prodotto; la delusione si palesa laddove lo si metta in fila dopo tutte le altre release dei norvegesi, nella consapevolezza di quale prodigio fossero i Tragedy con Liv Kristine. Da fan della band non mi sento affatto di bocciare “Storm“, che torno a sentire periodicamente non senza una certa nostalgia, ma indubbiamente per onestà intellettuale devo collocarlo al posto che gli spetta, contestualmente alla carriera della band, un lavoro che non inventa più nulla, non osa, non sperimenta, ma anzi si chiude in una comfort zone dentro la quale adesso però c’è una concorrenza spietata, ed i Tragedy nel 2006 sembrano più un leone che si lecca le ferite anziché un giovane e ardimentoso pretendente al trono disposto a tutto.
Marco Tripodi