Recensione: Storm Season

Di Riccardo Angelini - 6 Ottobre 2005 - 0:00
Storm Season
Band: White Willow
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2004
Nazione:
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74

Si conferma gravida di artisti dal notevole potenziale quella penisola scandinava che, dopo aver esplorato gli abissi musicali più estremi e profondi, pare da qualche tempo aver preso gusto nella riscoperta della grazia e della duttilità del vecchio rock progressivo. Dopo che la culla svedese ha fatto scuola nell’ultimo decennio con i redivivi Kaipa e i meteorici Anglagard, ora tocca alla terra di Norvegia generare una prog-band lontana dalle venature metalliche dei già noti Spiral Architect, Pagan’s Mind e dei giovani talenti Circus Maximus.
E’ un rock autunnale e crepuscolare quello che propongono i White Willow, forti di una line-up che conta al suo interno la bellezza di dieci (!) esecutori, molti dei quali occupati con più d’uno strumento. Ecco così che accanto alla dotazione di base troviamo una piccola orchestra fatta di flauti, tamburi, violoncelli e naturalmente Mellotron, Hammond e mini-moog. La lista potrebbe continuare, ma il concetto dovrebbe essere già chiaro: la costruzione dei brani si rivela elaborata e sinfonica, con un tocco moderno che una volta tanto riesce a non apparire troppo invadente.

E’ il garbato sussurro di un flauto a sollevare la foschia vespertina di Chemical Sunset. Ora eteree, ora un po’ stridule, le vocals della driade boschiva Sylvia Erichsen conquistano rapidamente il centro della scena, mentre una pacata danza di sintetizzatori screzia i palpiti del basso e il canto malinconico del flauto. Tra soli di violoncello e tappeti ritmici di pregiata fattura il brano si distende per quasi otto minuti che scivolano delicati come rugiada su un manto di foglie morenti. Le melodie tristi e autunnali si rivelano subito il fiore all’occhiello della band, abile e mai troppo insistente nell’inserire una sottile vena di linfa elettronica nelle sue meste elegie. Sylvia dal canto suo si concede pochi ma deliziosi acuti, capaci di dare a brani garbati ed evocativi come Endless Science una singolare verve.
C’è da dire che le cose non vanno altrettanto bene quando la pur brava cantante si dedica all’espolarazione di tonalità più basse, forzandosi oltremodo nei successivi crescendo: in questi casi la sua voce divine strozzata e meno naturale, come un fringuello in gabbia che vorrebbe ma non può spiccare il volo. E’ questo il caso del duetto con un Finn Coren senza infamia e senza lode su Soulborn. Buona comunque la sezione strumentale, anche se forse un po’ prolissa, soprattutto nelle ultime battute, con segnapunti che concede vittoria con ampio margine alla coppia flauto-violoncello su tutto l’equipaggiamento elettronico.
Tra i brani più singolari si segnala la spettrale nenia Storm Season, una lugubre ode settembrina sporcata da macchie elettriche che ipnotizza con il suo incedere cantilenante, preceduta dalla traccia più marcatamente progressiva del lotto, Insomnia. Qui il chitarrista e principale songwriter Jacob Holm-Lupo cede penna e spartito al pianista/tastierista Lars Fredrik Froisle: il risultato è un moltiplicarsi dei riferimenti al rock progressivo tradizionale, con un uso (piacevolmente) reiterato dell’Hammond e di tutta la componente tastieristica, in un alternarsi di parti più elaborate con parentesi monodiche ed evocative. Un brano ricco di enfasi che può vantare anche il merito della sinteticità, dote rara in tempi in cui pare diffusa la credenza che una durata elevata sia sinonimo di maggior varietà e pregio.

I sette brani, di lunghezza medio-alta, riempiono con molta qualità i tre quarti d’ora abbondanti di durata del disco puntando efficacemente su atmosfere melanconiche, piovose, per molti versi perfette per questa stagione dell’anno. Le distanze dai grossi nomi del filone per così dire post-psichedelico – definizione pret-a-porter con la quale si vorrebbero inglobare i capiscuola Anathema e Porcupine Tree con talentuose nuove leve del pari degli italiani Klimt 1918 o dei polacchi Riverside – sono mantenute in grazia della ricchezza della strumentazione, che moltiplica le soluzioni accessibili alla nutrita schiera di esperti musicisti che hanno messo mano a Storm Season. Un’esecuzione pulita e arrangiamenti di classe suggellano un quarto album che potrebbe invogliare chi, come il sottoscritto, si era perso i primi capitoli della band a ripercorrerne a ritroso le orme. Consigliato ai malinconici e ai sentimentali, oltre che a chi ama sonorità meno immediate ma d’atmosfera; si astengano gli irriducibili che dalla musica esigono grinta, energia o semplice intrattenimento.

Tracklist:
1. Chemical Sunset
2. Sally Left
3. Endless Science
4. Soulburn
5. Insomnia
6. Storm Season
7. Nightside of Eden

 

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