Recensione: Storm the Walls
Introdotto da una copertina tanto bella quanto ignorante, “Storm the Walls” si potrebbe definire un album nato per gioco. Il progetto Stray Gods nasce infatti un paio di anni fa, quando il buon Bob Katsionis (nome noto della scena greca per il suo lavoro con gruppi come, tra gli altri, Firewind, Serious Black, Warrior Path e Outloud) improvvisa un giro alla Iron Maiden per provare un basso appena preso e si ritrova, sei giorni dopo, con otto canzoni belle che pronte per essere sfinate e date in pasto al pubblico. Che si tratti o meno di una leggenda metropolitana o di semplice sboroneria da parte del buon Bob, è innegabile che “Storm the Walls” suoni dalla prima all’ultima nota come un album della Vergine di Ferro: non parlo tanto di un’influenza più o meno marcata, quanto proprio di un’impostazione programmatica. Riff, giri di basso, assoli, tempi ed impostazione vocale sono fatti in modo da ricalcare in maniera pedissequa l’operato dei Maiden degli anni d’oro con Dickinson. Canzoni dirette, melodie trionfali, ritmi galoppanti e sporadici rallentamenti per fare un passo in territori più solenni sono gli elementi base di questo lavoro che, nonostante il profumo disimpegnato di un album fatto essenzialmente per divertirsi e rendere omaggio ai propri idoli, ha comunque qualcosa da dire. Tutto merito di un tiro dinamico ed avvincente, melodie sì accattivanti ma tutt’altro che improvvisate, una durata più che approcciabile (trentotto minuti abbondanti vanno giù come un bicchiere di bianco) e, non da ultimo, una scrittura semplice e diretta ma anche piuttosto solida. Ciò permette a “Storm the Walls” di smarcarsi dalle accuse – ingenerose, ma in ultima analisi anche abbastanza fondate – di semplice copia carbone di quanto proposto da Harris e soci nella metà degli anni ’80 e di scattare sulla fascia, per entrare di filato nell’area degli album decisamente godibili e piazzare un gol inaspettato.
Anche il fatto che nulla di ciò che sentirete ascoltando “Storm the Walls” sia solo vagamente originale non centra a mio avviso il punto: di cloni dei Maiden ce ne sono stati a bizzeffe negli ultimi quarant’anni ma fa sempre piacere, almeno secondo me, sentire qualcuno che lo fa in modo così appagante e coinvolgente, tanto che in virtù di ciò gli si perdona anche quello che ad altri non si farebbe passare. Dall’iniziale “The Seventh Day” alla conclusiva title track i nostri non si fanno mancare nulla: cavalcate sostenute e dal piglio deciso (“Black Horses” o “Naked in the Fire”), brani più classicamente heavy (“The Seventh Day”) o tracce che si divertono a mescolare le anime dei nostri, magari screziandole con qualche passaggio più dilatato o caricando il tasso di maestà (come accade ad esempio in “Silver Moon”, una delle mie preferite del lotto). C’è anche la ballata, “Love in the Dark”, che si distende su ritmi solenni e compassati impennando il proprio tasso di pathos tra una strofa languida e l’altra. I diktat del genere, insomma, vengono seguiti in modo ligio e zelante e contribuiscono a mantenere “Storm the Walls” stabilmente entro i confini dell’assoluta prevedibilità, eppure la cosa non mi ha dato fastidio. Il gruppo si ferma sempre prima di scadere nell’autoindulgenza e, al di là di tutto, confeziona otto tracce solide, compatte e soddisfacenti sotto ogni punto di vista, capaci di sostenersi sulle proprie gambe e di piazzare qualche bella zampata.
Certo “Storm the Walls” non sarà un lavoro per cui gridare al miracolo o strapparsi le vesti ma assicura una quarantina di minuti di musica coinvolgente, senza contare che tutti coloro che amano la Ferrea Virgo troveranno durante l’ascolto un rifugio sicuro ed accogliente, un appetitoso sollazzo condito dalla giusta carica battagliera per fomentare gli animi senza troppo impegno.