Recensione: Streams Inwards

Di Daniele D'Adamo - 1 Settembre 2010 - 0:00
Streams Inwards

L’internazionalità del metal ha assunto, ormai, i caratteri di quella che si può definire la definitiva conquista del globo terracqueo. Non altrimenti si potrebbe spiegare che il Cile, certo non la culla del verbo d’acciaio, sia la terra natìa dei Mar De Grises; fautori, in più, di un azzeccato incrocio fra – rispettivamente – doom, death e gothic!

Fulcro del gruppo è Juan Escobar: vocalist dal growling di scuola death, dai toni strazianti e disperati, oltre che abilissimo tastierista. Le sue partiture, infatti, permeano anzi saturano l’immobile atmosfera da lui stesso prodotta, avvolgendola e appesantendola indefinitamente. Verso gli strati più pesanti e più irrespirabili della medesima, ove insiste una sterminata cappa di sulfurea fuliggine che intrappola, anche, la luce. Questa sensazione di soffocante vertigine che si prova precipitando fra le tracce di “Streams Inwards”, terzo lavoro in studio del combo cileno, sposta con forza l’ago della bilancia che pesa lo stile verso funeree distese bruciate da riff giganteschi, lentissimi e striscianti.
Il doom.
Di nuovo, sono le abili manipolazioni di Escobar a preparare il terreno per il successivo passaggio delle chitarre e, soprattutto, del basso. Quest’ultimo vero segreto, a parer mio, dello spettacolare sound del quintetto sudamericano: Rodrigo Gálvez, difatti, mulina il proprio strumento indovinando la miglior sinergia con le keys, irrobustendo e approfondendo il sound. Arricchendolo, inoltre, con sequenze melodiche dalla pregevole fattura. Gli axeman, entrambi dotati di gusto sopraffino, lacerano l’etere con i loro lenti, languidi accordi; suggellando un groove dall’umore sì malinconico, ma non sempre sconfinante nella depressione. La bravura dei ragazzi di Santiago consiste proprio in questo: l’invenzione di splendide melodie, messe nelle canzoni a piene mani, che sollevano un po’ l’umore complessivo del full-length dandogli una leggera pennellata di colore. A patto di seguire, nell’ascolto, il filo logico dei pezzi poiché non mancano comunque istanti di dimessa demoralizzazione come nella dissonante e angosciante “Catatonic North”. Oppure di lancinante sofferenza interiore, cui è piena sino all’orlo “A Sea Of Dead Comets”.

Proprio le song si rivelano il punto forte del platter. Lo stile, come anticipato più sopra, non stupisce né per originalità né per innovazione. I brani, però, sono costruiti con una semplicità e abilità a volte disarmanti: niente virtuosismi, ma tanta anima. Nessun arzigogolo musicale, ma molta emozione. L’ottima coesione fra i brani stessi e la grande consistenza generale producono un insieme terribilmente compatto e risoluto nel perseguire l’obiettivo, raggiunto, dell’esternazione di un genere invece personale. I passaggi si possono ripetere più volte che rimane sempre la voglia di ricominciare da capo. Segno, questo, di maturità compositiva e di chiarezza nel saper tradurre in note le buone idee che nascono nella mente.
L’opener “Starmaker” è un monumento alla potenza e alla melodia: si aprono, improvvisamente, malinconici tramonti disegnati dalle visionarie e arcane partiture della strumentazione elettrica. Il ritmo, mai troppo lento, sostiene il tutto con vigore, avventurandosi a volte su rocciosi mid-tempo. Una volta di più, i più attenti troveranno qualche assonanza con i primi lavori dei Paradise Lost; mai riconosciuti abbastanza come maestri di un genere ancora vivo dopo vent’anni. “Shining Human Skin” e “The Bell And The Solar Gust” completano quindi un trittico di assoluto valore artistico culminante nel leitmotif di quest’ultima, pregno di epica e possente musicalità. Se, forse, questa cima può rappresentare l’acme del disco, le successive “Spectral Ocean”, “Sensing The New Orbit” e “Knotted Delirium” non rovesciano certamente un giudizio già chiaramente delineato.

“Streams Inwards” dimostra inequivocabilmente che il doom, a volte ritenuto – a torto – un genere tendenzialmente lugubre e tedioso, può regalare attimi di grande musicalità e intensa commozione. A patto, come natura vuole, di saper scrivere canzoni accarezzate dal talentuoso soffio dell’arte più fine.
I Mar De Grises, bontà loro, ci riescono.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. Starmaker 5:56    
2. Shining Human Skin 5:45    
3. The Bell And The Solar Gust 5:44    
4. Spectral Ocean 3:03    
5. Sensing The New Orbit 4:50    
6. Catatonic North 6:36    
7. Knotted Delirium 7:17    
8. A Sea Of Dead Comets 7:56

Line-up:
Sergio Alvarez – Guitars
Alejandro Arce – Drums
Rodrigo Gálvez – Bass
Rodrigo Morris – Guitars
Juan Escobar – Vox, Keys & Synth