Recensione: StressFest
Anno 1996: il mondo chitarristico si arricchisce ulteriormente e il panorama musicale accoglie la settima fatica discografica della Steve Morse Band.
Il precedente album “Structural Damage” uscito nel 1995 ci aveva regalato l’ennesimo capitolo sognante e avvincente di questo meraviglioso chitarrista unendo ancora una volta i sogni alla realtà e regalandoci emozioni da cogliere racchiudere e custodire come fossero un tesoro prezioso.
Con un pizzico di presunzione ritengo che tanti, troppi appassionati di musica commettono l’errore di catalogare la musica in generi ben distinti e soprattutto di etichettare un gruppo o un musicista a seconda di stereotipi preconfezionati e definiti. Una band che suona rock deve suonare rock e un chitarrista che si è fatto conoscere per la velocità con cui esegue scale e arpeggi deve mantenere questa sua impronta e questo suo marchio durante tutta la sua carriera musicale. Ma perché?
La musica a mio avviso è evoluzione e sperimentazione e soprattutto voglia e capacità di sorprendere l’ascoltatore.
Alla fine parliamo di sette note musicali che hanno semplicemente il compito di darci e regalarci qualcosa, di accompagnare le nostre giornate esaltando ogni nostra emozione positiva o negativa che sia.
Steve Morse è in primis un musicista completo e secondariamente un chitarrista tecnicamente eccellente ed aperto ad ogni linguaggio musicale possibile e quindi perché voler per forza definire e catalogare i suoi lavori musicali in qualche genere?
Che sia il pezzo rock più accattivante o la ballad più dolce, l’assolo più funambolico o acrobatico possibile o l’arpeggio di chitarra classica più sensuale e suadente, Steve semplicemente dona all’ascoltatore musica; il linguaggio e la forma di comunicazione più profonda che ci sia.
Dave La Rue al basso e Van Romaine alla batteria accompagnano nuovamente il biondo chitarrista di Hamilton in questo suo ennesimo viaggio musicale.
La title track “Stressfest” è l’alba del settimo disco della Steve Morse Band e il chitarrista ci regala subito una perla musicale.
Pezzo velocissimo accompagnato da una solida sezione ritmica dove un intro di batteria seguito da un interscambio ritmico chitarra/basso fa da preludio a un tripudio di note che si inseguono e si rincorrono.
Non c’è tempo per respirare e pensare perché tema, refrain e soli si interscambiano, si confondono e fanno a gara tra di loro a quale sia più bello ed emozionante.
Una cascata di note da assaporare e riassaporare.
“Rising Power” è la seconda traccia dell’album e il tema portante del pezzo suonato divinamente da Steve funge semplicemente da prologo e apripista ai tanti soli presenti, sostenuti da una rocciosa e semplice sezione ritmica. Pezzo bello ed interessante ma onestamente non trascendentale.
Luce e poesia però tornano prepotenti con il terzo pezzo dell’album, la sognante “Eyes of a child” e mai titolo fu più azzeccato. Reminiscenze di “Dreamland”, fantastica traccia contenuta in “Structural Damage” si intravedano e si respirano in questo meraviglioso susseguirsi di poche note che colorano la nostra tela musicale.
Il suadente tappeto batteria/basso e le dolcissime melodie di Steve si sposano in un matrimonio perfetto, un’unione indissolubile dando vita a forse il miglior pezzo dell’album; canzone che non vorresti finisse mai.
Ruolo da protagonista per Dave La Rue in “Nightwalk”, quarta track dell’album; un basso cadenzato si sovrappone ai soli di Steve per tutta la durata del pezzo. Solita e usuale maestria tecnica ed esecutiva anche se il pezzo sembra non decollare mai per davvero rimanendo comunque su livelli di buona qualità.
“Brave new world” è un pezzo rock accattivante e di ottima fattura dove la chitarra di Steve primeggia e disegna splendidi assoli attraversando timidamente a volte, spudoratamente altre, la strada disegnata dal solito acrobatico basso di La Rue. Bellissimo inoltre il breve intro disegnato e suonato con suono acustico e pulito. Pezzo davvero degno di nota.
Da brividi “4 minutes to live”, pezzo intimista, dolce, sensuale, semplice nella sua esecuzione ma profondissimo nella sua comunicazione emotiva. E’ incredibile quanto pathos riesca a trasmettere con la sua sei corde Steve Morse. Un cuore che batte, un uccello che vola, un bambino che gioca sulla spiaggia, un panorama mozzafiato o un fiore regalato timidamente ad una fanciulla: beh ognuno può chiudere gli occhi e vedere l’immagine che preferisce: una marea di emozioni ci pervade e si impossessa di noi e ci fa amare l’incredibile magia che sette note musicali riescono a scaturire e a far nascere.
Si prosegue con “The Easy Way”, settima traccia di “Stressfest”. Il pezzo leggermente inferiore alle tracce precedenti è comunque ben eseguito e suonato con i soliti ottimi soli di Steve sostenuti dalla sempre brillante sezione ritmica. La traccia scorre senza particolari sussulti degni di nota fino alla parte centrale dove basso e chitarra si isolano, si inseguono e si intrecciano in bellissime fughe e cavalcate sonore.
Una lunghissima sequenza contrappuntistica basso/chitarra caratterizza “Glad to be”; un classico pezzo alla Steve Morse dove ritmi e melodie intrecciate costruiscono il tappeto sonoro che anima tutto il pezzo. L’assolo di Steve colora di tinte pacate la parte centrale della traccia creando l’ennesima buona traccia del disco.
“Delicate Balance” penultime traccia di “Stressfest” sembra riprendere il percorso segnato da “Slice of Time”, splendido pezzo acustico ed intimista presente in “Structural Damage”; due minuti e trenta di delicata melodia sognante; un gioco armonico e melodico eseguito magnificamente dal basso di La Rue e dalla chitarra acustica di Steve Morse; ancora una volta paradisiaco lavoro contrappuntisco dei due musicisti ispirati senza dubbio dagli studi barocchi di Bach e Hendel come tra l’altro citato nello stesso artwork del disco.
Il disco tramonta con “Live to Ride” pezzo rock onestamente piuttosto anonimo; solita maestria musicale del terzetto ed ineccepibili inseguimenti fraseggistici tra i soliti La Rue e Morse ma forse il disco meritava conclusione migliore.
Si conclude così il settimo lavoro della Steve Morse Band album che prosegue la scia musicale e sonora del precedente lavoro “Structural Damage”.
Il disco non raggiunge a mio parere i livelli qualitativi eccellenti di “High Tension Wire”, del già citato “Structural Damage” e forse anche di “Coast to Coast” ma pur sempre emoziona l’ascoltatore con sonorità fresche e accattivanti e fraseggi e intrecci musicali di ottima fattura.
Steve Morse suona con cuore e sentimento disegnando tele musicali con colori vivaci e brillanti e costruendo architetture sonore che comunque toccano la nostra sensibilità più profonda.
“Stressfest” non credo verrà ricordato come il suo capolavoro musicale e discografico ma sicuramente è un disco da ascoltare perché quando il maestro Steve Morse con i suoi due magnifici compagni di viaggio accende la luce spegnerla sarebbe davvero un delitto imperdonabile.
Paolo Robba