Recensione: Striving Toward Oblivion
A tre anni dall’EP di debutto tornano sul mercato i tedeschi Vorga col loro primo full–lenght, “Striving Toward Oblivion”. Per descrivere il genere proposto dall’ardimentoso quartetto alemanno basterebbe l’affascinante copertina di Adam Burke, con i suoi toni freddi illuminati dalle fiamme della stazione spaziale verso cui l’astronave in primo piano si sta dirigendo: spazi infiniti, gelo cosmico e distruzione, cosa c’è di meglio per festeggiare San Valentino? Tornando a noi, i Vorga fanno un black metal melodico e di matrice fantascientifica, sfruttando le gelide sfuriate della musica del demonio per eccellenza per trasmettere il freddo siderale del vuoto cosmico mantenendo la cattiveria intrinseca che il genere pretende. Soprattutto, i Vorga lo fanno percorrendo una strada diversa dal cieco e monotematico martellamento sonoro, screziando la propria materia musicale con contrappunti sonori decisamente ghiotti. Accanto alle sferzate tipiche del black, che comunque costituiscono l’elemento fondante di tutti i tre quarti d’ora che compongono “Striving Toward Oblivion”, si trovano infatti melodie dal retrogusto epicheggiante, fraseggi più dilatati, slanci di arroganza tipicamente heavy, echi di death cafone e belligerante e passaggi più introspettivi. Un apparentemente incongruo miscuglio di elementi che, invece, viene plasmato fino a dar vita a un album decisamente organico, un abile mix di profumi e stati d’animo perfettamente bilanciati tra loro che, come in un elaborato rompicapo, necessita di una certa attenzione per essere compreso a fondo ma non si fa mancare una certa immediatezza (purché si ricordi che si sta parlando comunque di black metal, ovviamente). La vera carta vincente dei Vorga è, però, la loro capacità di creare ottime atmosfere con cui avviluppare l’ascoltatore: in questo senso il setting spaziale viene sfruttato molto bene, creando una tensione costante tra la pericolosa maestosità di spazi infiniti, l’inquietudine per una minaccia imminente e un classico ma sempre appagante sense of wonder che trapela tra una melodia e l’altra.
L’inizio è debordante: “Starless Sky” erompe subito dalle casse, dispensando furia gelida e violenza melodica senza preparare l’ascoltatore con la benché minima rincorsa. Il substrato death si fonde al tessuto sonoro dei nostri, donandogli una bella consistenza e stemperando il gelo del pezzo con improvvisi squarci bellicosi, arcigni. Con “Comet” i tempi rallentano, oscurando la melodia portante con cupi presentimenti che vengono allontanati solo durante le brevi fiammate più propositive. Il rallentamento carica ulteriormente il senso di minaccia incombente del pezzo, che si carica pian piano fino al vortice sonoro del finale che sfuma giusto all’ultimo, in un fugace arpeggio che sa tanto di scampato pericolo. Neanche il tempo di tirare il fiato e arrivano le robuste frustate di “Disgust”, che torna alla violenza tipica del black metal ma la screzia di derive più atmosferiche. Il rallentamento centrale concede una certa dose di inquieto riposo, ma col procedere del brano la componente più tipicamente black torna a pretendere spazio, creando un vortice rabbioso coronato da una chiusura dal retrogusto solenne. Si arriva ora ad una delle mie tracce preferite, “Stars My Destination”, che grazie all’ottima commistione tra violenza cieca e melodie propositive ma tutt’altro che leziose acquista un profumo avventuroso, da epopea spaziale. “Last Transmission” insinua nella matrice black una nota di fondo di malinconia, che serpeggia nel marasma sonoro tra una raffica chitarristica e la voce disperata di Peter. L’impennata solenne della parte centrale apre a una digressione più cupa in cui questa malinconia si vela di inquietudine, salvo poi tornare ad alzare i giri con un’ultima sferzata che ci accompagna al finale. “Fool’s Paradise” è un pezzo scandito che mescola abilmente consistenza death, malignità black e melodie nervose, concedendo solo uno spiraglio ad un fievole trionfalismo che profuma la traccia giusto in tempo per la chiusura. “Taken” torna a dispensare riff violentemente black, freddi e senza speranza seppur non privi di una certa grandeur, ma anche qui il quartetto si diverte a stratificare la propria materia musicale aggiungendo elementi più vicini all’heavy classico, sfarzoso ed eroico. La parentesi centrale concede una breve pausa, seppur tesa e velatamente solenne, prima di prendere la rincorsa per il crescendo. Il compito di chiudere il sipario su “Striving Toward Oblivion” è affidato a “Death Manifesting”, un pezzo quasi compassato e vagamente introspettivo – soprattutto rispetto a ciò che l’ha preceduto – dominato da un contrasto ben bilanciato tra melodie ipnotiche, un substrato graffiante e nervoso ed il solito cantato lacerante. Torna qui a farsi largo il profumo di spazi immensi e sconosciuti, mentre i Vorga intessono la loro magia sonora tenendosi sempre in bilico tra stati d’animo diversi tra loro e dispensando ad un tempo speranza, timore dell’ignoto e desiderio di spingersi in esso per svelarne i segreti.
“Striving Toward Oblivion” è un bel lavoro, sfaccettato ed organico, che di certo farà la felicità degli amanti del black atmosferico. Ben fatto, signori.