Recensione: Stupid Dream
“Stupid Dream” rappresenta per i Porcupine Tree l’album della svolta, della trasformazione profonda e dell’evoluzione sonora del quartetto. A partire da questo album, infatti, la band britannica imbocca una strada che si allontana dai suoni spaziali, eterei e fluidi del passato, realizzando un taglio netto anche a livello di etichetta discografica con l’abbandono della Delerium ed il passaggio alla Snapper, in grado di offrire una maggiore distribuzione e di garantire minori pressioni sul percorso artistico (la Delerium premeva per il mercato space rock/psichedelico in cui Wilson e soci non volevano più essere confinati).
Per chi, come il sottoscritto, aveva seguito il gruppo dalla metà degli anni ’90, il primo ascolto di “Stupid Dream” fu senza dubbio una sorpresa. Suoni elettrici e dinamici, la scelta di una forma canzone dall’approccio più immediato e melodie di più facile presa spiazzarono non poco i fedelissimi della prima ora, alcuni dei quali gridarono allo scandalo ed al tradimento, fermandosi con poca lungimiranza ed acume al primo impatto suscitato dall’album. Nel corso degli ascolti successivi, però, a ben vedere, chi ebbe la voglia di approfondire la conoscenza del disco, scoprì un’opera di grandissimo valore. Se è vero, come è vero, infatti che il nuovo approccio dei Porcupine Tree spalancò le porte ad un nuovo mercato mettendo i nostri in competizione diretta con realtà più conosciute presso il grande pubblico come i Radiohead, Wilson e compagni compirono non tanto una svolta commerciale, quanto piuttosto un balzo evolutivo di notevole spessore, tanto nella scrittura e nell’arrangiamento, quanto nell’esecuzione strumentale.
Il gioco di squadra affinato negli anni immediatamente precedenti e già evidente nello splendido live “Coma Divine” del 1997, raggiunge infatti un nuovo livello di profondo e costante interscambio tra i musicisti, apprezzabile e godibile un po’ in tutti i brani, ma decisamente ammirevole nello strumentale “Tinto Brass”, vera pietra angolare dell’album ed esempio di cosa la band saprà offrire da quel momento in avanti.
Non mi addentrerò in una pedante descrizione del disco track by track in quanto trovo che tale tipo di soluzioni non renda giustizia ad un album, specie se parliamo di musica dal forte impatto immaginativo ed emotivo come quella dei Porcupine Tree, pertanto quello che mi sento di dire di questo disco è che ascoltandolo assisterete allo sbocciare di un grande e meraviglioso fiore notturno dai grandi petali colorati, carnosi e vellutati, da cui emana un profumo di notte profonda. Tutto il percorso sonoro che si snoda dalla prima all’ultima traccia rappresenta un viaggio ricco di emozioni e di sorprese, in grado di rivelare nuove sfumature ad ogni ascolto, senza mai stancare, facendo di questo uno dei vertici creativi di Wilson, sorretto ed accompagnato da compagni d’avventura splendidi e magistrali, in primis un (come al solito) superlativo Colin Edwin (sentitelo su “Slave called shiver” e su “Tinto Brass”!) e poi un grande Chris Maitland, uno dei pochi batteristi misurati, personali, creativi e riconoscibili del rock contemporaneo.
Per dare comunque alcuni consigli di massima all’ascoltatore, ritengo che alcuni titoli debbano essere citati: “Even less”, “Don’t hate me”, “A smart kid”, “Tinto Brass” e “Stop swimming” rappresentano i vertici di un disco che non vede mai cadute di tono e che proietta l’ascoltatore in un mondo surreale, a metà tra Roger Waters e Magritte, dove le luci e le ombre (soprattutto) giocano ad alterare i profili delle cose e delle persone, lasciando intravedere mondi nuovi, che scorrono sotto la superficie della quotidianità, salvo poi rivelarsi in cangianti sfumature ed inebrianti profumi. Sentitevi l’intervento al sax del bravissimo Theo Travis in “Don’t hate me”, gustatevi le solitudini fantascientifiche di “A smart kid” e sentite i vostri sensi e le vostre percezioni espandersi in un mondo nuovo.
In questo disco e nel successivo, per chi scrive, i Porcupine Tree hanno raggiunto un picco creativo ed emotivo inarrivabile, solo in parte avvicinato da “In Absentia” e appena sfiorato dall’ultimo “Deadwing”, album dove Wilson comincia a citare sè stesso, incrinando leggermente le lucide superfici della sua creatura musicale. Concludendo, chiunque conosca i Porcupine Tree degli ultimi due dischi dovrebbe sicuramente procurarsi “Stupid Dream”. La classicità del rock, signori, passa anche tra i solchi di quello che è, senza timore di smentite, uno dei più begli album rock degli anni ’90.