Recensione: Stygian
Sono passati quattro anni da “Requiem for Us All”, secondo disco in carriera degli emiliani The Modern Age Slavery; full-length che ha lasciato una buona impressione sia nella critica, sia nell’audience e che ha consentito loro di occupare numerosi palcoscenici al fianco di band importanti (Cannibal Corpse, Sepultura, …).
Nel frattempo, inoltre, un cambio di line-up, pure esso importante, è avvenuto con le sostituzioni Simone Bertozzi / Ludovico Cioffi (chitarra) e Stefano Brognoli / Federico Leone (batteria). Sostituzioni che non hanno scalfito la tempra del nucleo della formazione di Reggio Emilia che, difatti, senza perdersi in indugi ha dato alle stampe il terzogenito: “Stygian”.
Dopo l’opener-track ‘Prelude to an Evolution‘, che altri non è che un affascinante incipit strumentale dal mood futuristico, il quintetto parte a mille, lasciando intendere che la super-tecnica non è venuta meno in questi anni anzi, se possibile, è stata alzata l’asticella che misura la difficoltà di esecuzione. Il muro di suono eretto dai Nostri nel loro complesso è immane. Si può immaginare come un’immensa, ciclopica diga in cemento armato rabbuiata da un cielo perennemente scuro, tetro, plumbeo.
L’intensità del suono che Luca “Cocco” Cocconi e i suoi compagni riescono a produrre è pazzesca, pari se non superiore ai Maestri statunitensi del deathcore, come per esempio i Carnifex. Con una differenza importante, insita nella proposizione di qualche inserto melodico qua e là, atto ad alleggerire leggermente la mostruosa pesantezza delle song ma, soprattutto, a renderle più personali, più visibili in mezzo al tornado di fuoco scatenato dalla strumentazione elettrica nonché dalla batteria. Spesso follemente diretta verso lo sfondamento completo della complicata e granitica barriera dei blast-beats (‘Miles Apart’).
Le dissonanze delle due asce si incrociano alla velocità della luce, legate strettamente dalle corpose linee di basso e dalla stupenda voce di Giovanni “Gio” Berserk, che interpreta il suo compito in maniera egregia, lasciando quasi intendere il sanguinamento della gola, talmente sono agre e corrosive le sue harsh vocals. I meravigliosi e devastanti, almeno a parere di chi scrive, stop’n’go di ‘The Theory of Shadows’ sono una delizia per chi considera tali artifici necessari alla buona riuscita del deathcore. Vere mazzate sullo stomaco, distinte scudisciate sulla schiena. Un delirio.
Sempre e comunque con i già menzionati, piccoli inserti melodici (‘A Stygian Tide’) che, a questo punto, oramai, possono considerarsi importante peculiarità dello stile dei reggiani, del loro formidabile deathcore.
Così, dopo qualche brano tirato al massimo (‘The Place We Call Home’), piomba sulla collottola la bastonata che induce la trance da hyper-speed (‘A Stygian Tide’). Allucinazione totale. Stordimento. La bravura strumentale dei The Modern Age Slavery è assolutamente fuori dalla norma e scatena una furia senza freni, sebbene costantemente incanalata entro i binari dell’intelligibilità. Il contrario del caos, insomma.
C’è anche un po’ di horror all’inizio di ‘The Hollow Men’ ma poi la canzone parte alla velocità della luce verso la completa annichilazione dei legami fra le cellule cerebrali, verso il danno assonale diffuso. Cioè, l’annientamento della mente, lo sfascio completo, la demolizione totale.
“Stygian”: deathcore immane; The Modern Age Slavery: eccezionali a 360°!
Daniele “dani66” D’Adamo