Recensione: Summonin Black Gods
Ci sono band che, dopo la stesura di un semplice demo-tape, sono diventate immediatamente oggetto di culto da parte dei più oscuri e reconditi frequentatori dell’underground. Un esempio classico è quello di “The Shining Pentagram” dei Necrodeath che, quasi ‘misteriosamente’, nel 1985 fece il giro del Mondo proponendo i genovesi come alternativa agli astri nascenti del proto-death metal quali Possessed e Morbid Angel.
Ventisette anni dopo si ripresenta, perlomeno nelle fattezze iniziali, una storia analoga: quella dei tedeschi Chapel Of Disease che, dopo una cassetta incisa nell’aprile di quest’anno (“Death Evoked”), passano subito alle vie di fatto incidendo uno split con i Lifeless (“Chapel Of A Lifeless Cult”) e, quindi, il debut-album, “Summonin Black Gods”. Partendo dall’anno di nascita (2008), insomma, una volta giunti a una formazione stabile si è trattato per loro, semplicemente, di bruciare le tappe.
“Summonin Black Gods”, tanto per gradire, va a finire nell’infinito calderone degli ensemble giovani dediti al death metal vecchio o, meglio, all’‘old school death metal’. Questa tendenza, in voga da parecchi anni, è figlia di un evidente desiderio di non dimenticare le radici da cui hanno tratto gli elementi nutritivi, guarda caso, sia i Padri del death più sopra citati (Possessed e Morbid Angel), sia la sterminata stirpe di musicisti che da essi ne è discesa. Una filosofia artistica che, a parere di chi scrive, è solo da lodare poiché consente a tutti, in pieno 2012, di apprezzare – sebbene adeguate agli standard produttivi attuali – le incredibili sonorità che hanno dato il la a un genere, il death appunto, che ha conquistato il Pianeta; sopravvivendo a tutte le mode rigenerandosi ed evolvendo continuamente sino, per esempio, al futurismo del ‘cyber death metal’. Accanto a tali lodi, tuttavia, non si possono dimenticare le considerazioni negative, fra le quali la più evidente è una e una sola: reiterare dei cliché triti e ritriti senza preoccuparsi di metterci del proprio con che dando luogo a dei lavori tutti uguali, senza il benché minimo barlume di originalità. Sta quindi ai musicisti saper trovare il giusto compromesso fra l’osservanza dell’ortodossia stilistica e l’espressione della propria personalità.
Analizzando con calma e attenzione “Summonin Black Gods”, non pare che il combo di Colonia sia riuscito in questa difficile impresa. Passando e ripassando il platter si assorbe, questo sì, la tipicità del sound, ma non si riesce mai a concepire la fatidica frase mentale «ecco, questi sono i Chapel Of Disease!». Già l’interpretazione di Laurent Teubl alla voce è talmente simile, in tutto e per tutto, a quella di Jeff Becerra da far pensare ad libitum che fra le mani ci si trovi un ipotetico “Seven Churches II”; ma è comunque l’insieme che ha un flavour il quale si potrebbe definire ‘scolasticamente marcio’. Come se, in sostanza, tutto fosse troppo perfetto, ciascun elemento fosse al posto giusto nel momento giusto; togliendo con ciò al disco quella naturale cattiveria, quel sapore di corruzione, quell’alone di genuina malvagità (sempre sonora, beninteso…) e tutti quei segni particolari che, invece, il death metal vecchia scuola deve avere, grondando all’uopo putrefazione da ogni poro. Anche il songwriting suffraga la sensazione di artificiosità che, a mano a mano, impregna l’ascoltatore di “Summonin Black Gods”. I brani si susseguono difatti senza particolari scossoni, né in alto, né in basso. La continuità di scrittura è discreta, ma il non lasciarsi andare alla morbosità non consente ai Nostri di tirare fuori dal cilindro qualche song ‘davvero’ mortale. Qualche riffone da headbanging stacca-collo c’è, come nella buona “Exili’s Heritage”, ma alla fine non rimane granché, in mano, da tramandare ai posteri.
Con che, a tirare le somme, s’è scritto tutto di “Summonin Black Gods”. I Chapel Of Disease hanno un retroterra culturale sicuramente sviluppato e correttamente messo da parte e sanno anche eseguire assai bene le varie canzoni del CD (o dell’LP, poiché è disponibile anche questo supporto). La purulenta anima dell’old school, tuttavia, pare sia stata tenuta un po’ troppo lontana, non avvolgendo tutto e tutti a mo’ di corrotto e maleodorante sudario. Peccato.
Daniele “dani66” D’Adamo
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Tracce:
1. Summoning Black Gods 5:41
2. Descend To The Tomb 5:06
3. Dead Spheres 4:26
4. Evocation Of The Father 6:19
5. The Nameless City 5:39
6. Hymns Of The New Land 5:39
7. Exili’s Heritage 3:33
8. The Loved Dead 8:21
Durata 45 min.
Formazione:
Laurent Teubl – Chitarra/Voce
Cedric Teubl – Chitarra
Christian Krieger – Basso
David Dankert – Batteria