Recensione: Supremacy
“Seguite con attenzione questa band: da queste note sta nascendo il metal del futuro”: con siffatte profetiche parole, una delle riviste più considerate del giornalismo HM italiano diede risalto, nei primi anni ’90, alle gesta sonore di un gruppo che, col senno di poi, si potrà annoverare tra i più sottovalutati del metal moderno. Già, perché gli Elegy, il cui primo embrione risale al lontano 1985 per intuizione del chitarrista Henk Van der Laars (e che 2 anni dopo emersero fra oltre 450 band come vincitori di un concorso organizzato dal Metal Hammer tedesco), possono considerarsi a pieno titolo i precursori di quell’ondata power con influenze progressive (e viceversa…) che ha spopolato negli anni a seguire, contagiando miriadi di gruppi fra cui Angra e Kamelot (attuali capofila in questo particolare ambito), i nostri Labyrinth e Vision Divine, e in qualche misura -ed in modo opposto- anche i Blind Guardian e alcuni rappresentanti del prog “di confine” come Symphony X e -più di recente- Circus Maximus e Seventh Wonder (senza contare che persino realtà come i Rage, che hanno fatto del power aggressivo il loro “credo”, hanno ultimamente rintracciato in certe commistioni una seconda giovinezza).
Il sound degli olandesi trae spunto dal techno-metal di fine anni ’80, si avvale del recupero di partiture classicheggianti e del progressive settantiano, e ha come ambizioso obiettivo l’evoluzione del power-metal: un genere, quest’ultimo (è bene sottolinearlo), che nel 1992, ai tempi dell’esordio “Labyrinth of dreams” (primo esempio compiuto di power-prog, peraltro contemporaneo e parallelo al caposaldo prog-metal “Images and Words”) era praticamente fuori mercato e apparentemente senza prospettive (cosa che avrà verosimilmente un suo peso nelle sorti successive del quintetto, sui cui torneremo in seguito). Ebbene, il traguardo sopra delineato trova la sua perfetta quadratura in questo “Supremacy”, ed un attento appassionato d’arte moderna sarà di certo agevolato nell’intuirne gli orientamenti fin dalla bella copertina, personale rielaborazione di un’opera surrealista degli anni ’50 di M.C. Escher, denominata “Le scale impossibili”: che sia un caso se l’iniziale “Windows of the World” si apre trionfalmente (e metaforicamente) proprio con un tripudio di “scale virtuosistiche” (qui delineate da Van der Laars e dal compagno d’asce Gilbert Pot)? Il brano rappresenta in ogni senso una vera e propria dichiarazione d’intenti, e l’andamento di base è infatti quello “speed” di derivazione Helloween 1987/1988 (comprensivo dei tipici assoli “a due voci”), ma è spezzato a più riprese da intricate architetture che evidenziano una perizia tecnica di prima classe, fra stacchi improvvisi, ripartenze, e controtempi tipici dell’emergente (allora) scena prog-metal. A completare il quadro, la voce pulita e orientata agli acuti di Eduard Hovinga, lontano emulo di Michael Kiske, in comune con il quale ha peraltro la giovanissima età di “arruolamento” (aveva 17 anni, nel 1990, quando fu selezionato per rimpiazzare il vecchio cantante), ma che diversamente dal famoso collega si trova a dover fronteggiare linee melodiche meno dirette al primo ascolto, quantunque altrettanto efficaci: ergo, il power secondo gli Elegy, vera avanguardia del settore. Quanto appena affermato trova una puntuale, pregnante conferma, nella successiva “Angels Grace”, che si allontana però dalle sfuriate introduttive grazie a delicati arpeggi da menestrello e timidi sfondi di tastiera, per poi evolversi inaspettatamente e meravigliosamente in una miscellanea che alterna metal tecnico, chitarra spagnola e frizzanti variazioni elettriche, oltretutto rinunciando ad un vero refrain per sostituirlo con una melodia collegata e difficilmente scomponibile nel classico schema strofa/bridge/ritornello. “Poisoned Hearts” torna invece a proporci gli Elegy power-oriented, e qui non sfuggiranno le influenze che, di lì a un lustro, ritroveremo nella scena scandinava, con quelle “gelide” tastiere a fondersi nell’up-tempo di base e ricorrenti incursioni neoclassiche: ma anche in questo caso è un’altra storia, e una sezione ritmica mai doma (davvero accattivante, in particolare, il giro armonico del bassista Martin Helmantel) ed un ritornello impepato da gustosi cambi di tonalità (sull’esempio dei Fates Warning epoca “Awaken the Guardian”) sono lì a dimostrarlo. Con “Lust for Life” si cambia ancora registro, in un momento di relax in cui gli Elegy incontrano i Journey per una AOR-ballad di classe che non rinuncia ad essere personale (in proposito: attenzione allo stacco centrale). Rilassamento che prosegue ancora per un attimo, con “Anouk”, dolce strumentale che Van Der Laars, nelle appropriate vesti del guitar-hero solista (quasi in ossequio ai suoi ispiratori Marty Friedman e Al DiMeola), dedica alla figlia…ma è un breve ristoro, interrotto di colpo dai ritmi intensi di “Circles in the Sand”: pensate qui ai Dream Theater di “When Dream and Day Unite”, portateli in ambito power, e vi sarete fatti un’idea. Ma il piatto è ancora ricco, e “Darkest Night” ci rispedisce sui sentieri esplorati nel disco d’esordio, con un bicorde variato ad accompagnarci in melodie hard’n’heavy avvolte da ritmiche e riffs stralunati, nei quali si evidenzia al meglio soprattutto l’ottimo lavoro del batterista Dirk Bruinenberg (in seguito negli Adagio di Stephan Forté). A questo punto, 30 secondi per chiudere gli occhi e rifiatare in eleganti note quasi “soul” che si riallacciano -come ideale “coda”- alle tematiche del precedente brano (“Close your eyes, love will come your way…close your eyes tonight”), prima di risvegliarci nei 5 minuti di puro prog-metal presenti in “Supremacy”, fra partiture complesse che a fatica lasciano scorgere la forma-canzone (pur mantenendo una certa “assimilabilità” di base) e una linea melodica impossibile per molti e che a tratti si avvicina ancora ai Fates Warning più allucinati: nei fatti, la Supremazia degli Elegy rispetto a gran parte della “concorrenza” dell’epoca. Le pazze escursioni della title-track sfumano poi nella pioggia di “Erase me”, non una vera ballad, piuttosto un lento anomalo, che comincia con un triste arpeggio a supportare la litania di Hovinga fra lievi dissonanze e acuti degni di John Arch, e che si sviluppa anticipando di poco Matos e i suoi Angra (avete presente quei tipici finali di stampo classicheggiante?), per poi dileguarsi a tempo di marcia funebre e liriche desolanti (…look at the sun for the last time my friends…The final parade…Won’t you erase me).
Così si conclude “Supremacy”, il capolavoro degli Elegy, in sostanza un vero “classico” che ha il solo “difetto” di essere stato creato in anticipo rispetto a mode e “tendenze” (ebbene sì, anche nel metal), tanto che un sagace commentatore osserverà -qualche anno dopo- che se il disco fosse uscito nel biennio 1997/98 avrebbe fatto il “botto” e gli Elegy oggi sarebbero milionari. In seguito, invece, con il boom del nuovo power di marca “progressiva” e i metal-kids ad abbuffarsi di tali sonorità, gli Elegy si troveranno incredibilmente ai margini del ricco banchetto. Il resto è storia più o meno recente: dapprima lo split con Hovinga, poi il graduale spostamento del songwriting (fra alti e bassi) nelle mani del nuovo singer Ian Parry (peraltro bravissimo -seppure diverso- interprete), il conseguente abbandono dello storico leader Van der Laars e l’inevitabile scioglimento della band: questa recensione vuole essere un umile omaggio ai pionieri, sperando nel suo piccolo di poter contribuire ad una fetta italiana di “gloria postuma”.
Alessandro Marcellan – “poeta73”
Tracklist:
1. Windows of the World 5:10
2. Angel’s Grace 7:09
3. Poisoned Hearts 5:26
4. Lust for Life 5:21
5. Anouk 1:52
6. Circles in the Sand 4:42
7. Darkest Night 4:10
8. Close Your Eyes 0:39
9. Supremacy 5:00
10. Erase Me 7:27