Recensione: Surgical Remission/Surplus Steel
Poco più di un anno fa mettevo il bollino 90/100 a “Surgical Steel”, disco del ritorno dei Carcass, tanto aspettato dai fan e da tutto il mondo del metal.
Un ottimo rientro in pista con tanto di tournèe mondiale e la fortuna di vedere Steer & Co. dal vivo per due volte nell’arco di sei mesi, con anto entusiasmo per riascoltare dal vivo una delle band culto di tutti i tempi della scena estrema.
Questo “Surgical Remission/Surplus Steel” giunge così all’improvviso che la prima domanda sorge spontanea: quando avranno trovato il tempo di scrivere, registrare nuovo materiale considerando i ‘nuovi’ tempi biblici di uscita della band? Sono avanzi dalle registrazioni dello scorso anno?
Ma subito dopo la mente prende coscienza dell’accaduto e si prepara ad accogliere il nuovo arrivato, soprattutto considerato che dovrebbe essere il seguito del disco dello scorso anno. Insomma nuovo materiale in cinque brani che non può che accrescere la voglia di continuare il sentiero dei nuovi Carcass e chiudere il cerchio Surgical Steel.
Bando alle ciance, tuffandosi a braccia aperte all’interno di questi 17 minuti si resta sconvolti non poco, e soprattutto si va a sbattere contro la più scialba uscita del 2014.
La cosa più interessante è ”Outro 1985”, quel che fu Intro dello scorso disco e composto 30 anni fa da Steer. E il resto? Noia mortale, terrificante, non un riff degno di nota, una scorribanda carcassiana, o una ripartenza devastante, alle quali siamo fin troppo ben abituati.
E la domanda d’obbligo è: perché?
Non riesco minimamente a captare esigenze di qualsiasi tipo che hanno portato a questo scempio di un nome così pesante. Sarà la Nuclear Blast avrà sfruttato il momento d’oro? Ma con questo materiale neanche a Sanremo.
Non riesco a credere a quello che scrivo ma ancor di più a quello che ascolto in questi terribili minuti, per fortuna passano subito, ma allo stesso tempo sembrano lunghissimi. Neanche la voce di Walker, ancora ben rodata considerata l’età, riesce a dar uno scossone, nè un Wilding che sembra la fotocopia di sé stesso ci sveglia dalla monotonia degna di dischi doom da serie B.
Nella fattispecie “A Wraith in the Apparatus” è basata su tre idée con uno schema degno delle peggiori squadre di serie B: Strofa-Ritornello-Strofa-Ritornello-Solo Guitar-Strofa-Ritornello. Non un cambio di tempo, tutto monotono, scontato, senza grinta. Cosa che appare evidente anche nella successiva “Intensive Battery Brooding”, con la sola eccezione dell’unico cambio di tempo nel minuto finale, che nonostante tutto non impressiona nemmeno un novizio.
Si spera in un cambio di rotta ma nemmeno per idea, la band resta incollata a tempi ‘facili’, riff scontati, metriche dritte con “Zochrot”, emblema di roba sentita, trita e ritrita incluso il solo di Steer, fotocopia di quel killer che rende la sei corde un martello pneumatico pronto a devastare il mondo.
Ma al peggio non c’è mai fine e probabilmente l’apice dell’orrido arriva col ritornello di “Livestock Marketplace”, che segue il percorso monotonia dei brani precedenti, lasciandoci però in comune con gli altri brani la delusione dal primo all’ultimo secondo.
Presa in giro o mossa commerciale per nuovi proseliti?
Non so quanti di voi possano apprezzare uno ‘sforzo’ del genere, per il sottoscritto ogni ascolto equivale a una lenta agonia.
Lodatissimi nel 2013, bocciatissimi nel 2014!
Vittorio Sabelli