Recensione: Surgical Steel
Immaginate di trovarvi in una mostra di anatomia contemporanea, e al suo interno tante stanze dove ognuna espone le diverse parti del corpo umano. Tra le varie stanze una in particolare, rotonda, in penombra, minimalista ed ermetica, è in attesa della sua inaugurazione, che avverrà solo dopo ‘qualche’ giorno, mese, anno… È una sala operatoria al cui centro c’è un solo tavolino quadrato sopra al quale un velo cela quella che sarà la sorpresa più attesa. I visitatori possono osservare solo dall’esterno questo tavolo coperto attraverso l’unica, lunga vetrata; alla loro uscita, quando il museo rimane completamente vuoto e buio, la stanza s’illumina e dal soffitto scende un’èquipe di chirurghi che minuziosamente toglie il velo e ammira lo schieramento. I ferri vengono minuziosamente sterilizzati mentre brillano sotto i freddi neon, sapendo che un giorno saranno pronti per i loro pazienti, gli stessi che li ammirano sotto il velo per sterminati giorni, e che saranno le vittime prescelte…attratte dal mistero che li relega in quel posto da diciassette lunghissimi anni. Quando il giorno dell’inaugurazione arriva e tutti sono appostati attorno al perimetro della stanza in attesa, il tramonto regala un unico raggio di luce che oltrepassa una finestra e si staglia sul tavolino che, ruotando, assume la posizione di un quadro e il velo scivola lentamente a terra. Decine e decine di utensili da lavoro, utilizzati sin dal 1988 in “Reek Of Putrefaction”, sono assemblati in uno schieramento circolare, e tra questi risalta uno in particolare, sulla destra, con un nome forgiato a fuoco: Carcass.
Il ritorno più atteso; tutte le ‘riserve’ che circondavano il ritorno in pista e la sorte di una delle più acclamate band della storia del metallo estremo, si sciolgono con la caduta del velo. È comprensibile che tutti vorremmo ancora Owen dietro le pelli, ma sarebbe come cercare ancora Lord Worm nei Cryptopsy o Gahal nei Gorgoroth (con la differenza della scelta ‘tecnica’, anziché fisica). Senza attenuanti la storia va vista dal presente e il tempo inesorabilmente consuma la distanza tra Heartwork e Surgical Steel, e il giovanissimo e talentuoso Wilding (classe 1989, anno di uscita di “Symphonies Of Sickness”) prende spunto rispettosamente dallo storico precursore Owen per apportare ulteriori e interessanti sviluppi allo stile Carcass. Venti anni che non sembrano essere trascorsi per il duo Walker/Steer, perchè “Surgical Steel” (pro)segue in tutto e per tutto le orme di “Heartwork”, pur ampliandone il discorso in chiave più moderna e varia; solo il tempo ci dirà come e dove collocarlo al suo cospetto. Quello che al momento è innegabile è che le sue tracce scorrono via in maniera fluida lasciando solo ottimi sapori e con un’ampia gamma di retrogusti. Come uno scotch whisky o un buon vino d’annata l’immensa classe e creatività di Bill Steer e Jeff Walker continuano a farci godere quest’affascinante opera in ogni suo istante, in ogni cambio di tempo, in ogni assolo che si contrappone in maniera sinuosa alle maree di riff, complessi e non, giocati con maestria come fossero pedine disposte su una scacchiera, in una partita perfetta.
Basta la progressione dei quattro accordi di “1985” – anno in cui l’embrione sotto forma di Disattack stava formandosi – con le sue chitarre armonizzate in una melodia ascendente, per annullare una parte degli anni che ci dividono da “Swansong”; la grinta di Walker nella successiva “Thrasher’s Abbatoir” annulla i restanti anni, ed eccoci di nuovo di fronte alla storia, ma con un Owen e un Amott fuori dalla partita. Il primo per questioni purtroppo risapute, il secondo meno, ma sinceramente la sua presenza non è rilevante nel sound e nella composizione dei brani, e, fan(atici) del ‘rosso’ a parte, ne è prova evidente la performance brillante di Steer sotto tutti i punti di vista. Quello che si evince in primis è il sound e il suo stile (leggasi classe) estremamente personale (leggasi unico) e riconoscibile dappertutto, oltre a un senso innato e un ottimo gusto per la composizione, sempre equilibrata e mai scontata, punto di riferimento non solo per i chitarristi ma per tutti i musicisti. Il riffing disarmante unito alle sue melodie creano un amalgama sul quale la granulosa voce di Walker può infierire ulteriormente e sconvolgere i nostri sensi. La timbrica e il suo carattere vocale sono punti fermi dello stile Carcass con qualche richiamo allusivo ai primi due album nelle iniziali “Thrasher’s Abbatoir” e “Cadaver Pouch Conveyor System”. Possiamo scoprire una pesantezza “fisica” nei riff (“The Master Butcher’s Apron” e l’infernale “316 L Grade Surgical Steel”, assecondato dal piatto ‘ride’ in trentaduesimi in slow-time), assemblati in maniera eccelsa dalla ritmica formata da Walker/Wilding, e altresì viaggiare nelle struggenti melodie di Steer (“Noncompliance to ASTM F 899-12 Standard” e “Mount of Execution”), sognante nei soli durante tutte le tracce. Proprio i momenti e le sezioni melodiche sono il contraltare alle sezioni up e mid-tempo che regnano in Surgical Steel.
Se qualcuno potrà lamentare l’estrema pulizia e precisione in fase di missaggio, che potrebbe risultare ‘freddo’ a primo impatto, basta pensare zen, ora e in questo momento! Siamo nel 2013 e non più ai tempi dei loro storici lavori e l’avanguardia deve rendere giustizia a un lavoro del genere; non una virgola fuori posto, niente lasciato al caso e nessuna forzatura nelle sezioni: Surgical Steel a mio avviso meritava il top, e tale è stato per mano di Colin Richardson come produttore e con il tocco finale di Andy Sneap (Megadeth, Exodus e Testament). Considerando che l’etichetta è la Nuclear Blast, si sarebbe potuto rischiare una “The Great Death’N’Roll Swindle”, dopo i Sex Pistols. Ma i Nostri non bluffano, né recitano per accontentare il mercato, regalandoci un disco in perfetto stile Carcass, quello che tutti da venti anni sognavamo. O quasi, visto che qualcuno sperava in un ritorno in stile grindcore, che sarebbe stato come chiedere ai Napalm Death di ritornare a produrre dischi alla ‘Scum’ -, pura utopia!
Lasciatevi solo trasportare dai Nostri, e loro vi faranno viaggiare dove ben poche band sono riuscite nel genere, oltremodo dopo una reunion. A questo punto non resta che distruggere le vetrate e correre verso il dipinto, per ammirare da ogni angolazione la brillantezza di ogni singolo arnese ed ogni suo dettaglio, perché è giunto il momento di (ri)entrare a stretto contatto con l’universo Carcass e con la loro saga, tutt’altro che conclusa.
Vittorio “versus” Sabelli
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