Recensione: Surrender of Silence

Di Germano "Jerry" Verì - 11 Ottobre 2021 - 13:00
Surrender Of Silence
Etichetta: Insideout Music
Genere: Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
82

Sono passati ormai 50 anni dal giorno in cui Steve Hackett ha iniziato ad inondare l’universo musicale della sua arte e della sua sconfinata creatività con le sette note, facendolo sempre con un invidiabile rapporto qualità-quantità che a pochi è riuscito di preservare nell’arco della carriera così lunga. La sua è la storia di un artista talmente prolifico da non riuscire a confinare la vena compositiva nell’ecosistema di una band (tali Genesis) già agli inizi del suo percorso, tanta era la capacità di farsi contaminare e convogliare il suo concetto di musica, fondendo prog rock e opera, musica classica e pop, ma non solo. Un alternarsi di produzioni acustiche ed elettriche, spesso caratterizzate da un non casuale manierismo nella scelta delle sonorità (e dei musicisti) a garanzia del caleidoscopio acustico ricercato. Un viaggio temporale che negli anni si è fatto anche spaziale, andando oltre i confini stilistici delle epoche, dei luoghi e delle culture. Il risultato è un’imprevedibilità che affascina già prima dell’ascolto, il respiro di una libertà totale dalle mode e dalle tangibilità.

Prima che la pandemia la limitasse ad una dimensione esclusivamente fantastica, Hackett ha infatti dato sfogo negli ultimi anni alla sua volontà di viaggiare ed esplorare terre lontane ed esotiche, assorbendo e metabolizzando suoni senza tempo, oggi più che mai proposti all’ascoltatore come ingredienti di un piatto speziato. Un peregrinare che solo pochi mesi fa lo aveva fatto approdare musicalmente nel Vecchio Continente con Under A Mediterranean Sky, album acustico magniloquente a celebrare le civiltà affacciate sul bacino, e che già oggi lo riporta verso mete ben più lontane, recuperando al contempo la sua dimensione elettrica.

Già le prime note di “The Obliterati” suggeriscono la distanza stilistica di questo nuovo lavoro dall’illustre (e difficilmente eguagliabile) predecessore acustico: poco più di un’intro al sapore di soundtrack, tra orchestrazioni e soli in tapping. Ci siamo, l’abbiamo riconosciuta, è la sua Les Paul. Il viaggio vero e proprio inizia con i gelidi e non velati richiami a composizioni classiche (Prokofiev in primis) di “Natalia”: brano orchestrale e spiazzante, dove i cori si alternano al menestrello Steve, certamente affascinante ma nel quale una dose di prolissità confonde l’ascoltatore. “Relaxation Music For Sharks (Featuring Feeding Frenzy)” esordisce eterea per poi animarsi, sinfonica e tellurica grazie al drumming serrato di D’Virgilio e un Hackett in versione Satriani, per poi inabissarsi di nuovo, liquida e sognante. Richiami al Continente Nero nella seguente “Wingbeats”, brano melodico e corale (Durga e Lorelei McBroom, ex-Pink Floyd, sugli scudi) dai ritmi tribali, elegantemente vestito dalle melodie disegnate dalla chitarra del protagonista del viaggio.

La successiva “The Devil’s Cathedral” è senza dubbio uno dei pezzi meno esplorativi sul fronte etnico, puntando su una impostazione orrorifica e oscura assicurata da Roger King travestito da Ton Koopman con, nel mezzo, un paio di buoni groove a porre le basi per un po’ di passaggi in pieno stile neo prog. La voce di Nad Sylvan fa il resto, consegnando in definitiva uno dei migliori brani del platter. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizza la seguente “Held In The Shadow”, introdotta da romantici arpeggi per poi sollevarsi in un mid-tempo che incede massiccio (in Kashmir-style) lasciando alla sezione ritmica il compito di spolverarci i woofer.

È ora di rifare la valigia, scoprire civiltà e atmosfere orientali: si torna a viaggiare con “Shanghai To Samarkand”, nostalgica e misteriosa, arricchita da strumenti esotici. “Fox’s Tango” abbassa decisamente il livello di ricercatezza con la sua caratura più classica, basandosi su un riff ciclopico incendiato da buoni soli. La coppia ReingoldD’Virgilio e un Hackett protagonista (anche alla voce) impacchettano un brano godibilissimo. Le tinte dark e a tratti doom di “Day Of The Dead” lasciano poi spazio alla malinconia di “Scorched Earth”, intima e commovente come un grido di dolore interiore del Pianeta. Il duetto con Amanda Lehman è toccante, la melodia è struggente, il messaggio tocca l’anima. Ad “Esperanza” non resta che il commiato acustico, dolce e fidente.

Questo Surrender of Silence è senz’altro un album coraggioso, tale è la commistione di generi, dinamiche e mood, chiaramente figlio di un artista che nulla più ha bisogno di dimostrare o temere, figuriamoci una coerenza stilistica già spesso latitante in passato o una certa stucchevolezza già alle volte sfiorata. Decidere di delinearne il profilo compositivo potrebbe essere un errore madornale, tanto è diversificato il songwriting ed ermetico ogni episodio dell’esperienza sonora. Non un unico dipinto, ma una intera esposizione dove lo scuro lascia spazio a brevi momenti di chiaro, dove il concetto di inclusività musicale si fa meltin pot di vissuto artistico e personale. Un disco emancipato, nella cui architettura nulla però è lasciato al caso, dove la libertà di viaggiare, anche solo con la fantasia, diventa libertà di esplorare nuovi territori musicali.

 

Ultimi album di Steve Hackett

Genere: Progressive 
Anno: 2015
75