Recensione: Svindeldjup Ättestup
Yahweh [egli fa esistere] Ašer [quello che] Yihweh [già esiste]
Portalo.
Accompagnalo per mano, con passo lento e greve, fino all’abisso.
Verso il nero più profondo, conducilo, fino al confine dell’ultimo passo libero: ned i Helvetet.
Yhwh
Troppo sacro per essere nominato, troppo santo per donagli anche un solo anelito di fiato. Non raccontarmi con voce umana, non pronunciarmi: non profanarmi con il Verbo.
Igenom mig skall ni finna den sanna enigheten
Attraverso me troverai l’unità. La vera unità: la sublimazione di spirito e corpo, il compenetrarsi di azione e reazione, il sesso selvaggio e ancestrale tra fuoco e ghiaccio. Abbandonati, lasciati andare. La tentazione ti fa umano; resisti, non pronunciarlo, non pensarlo nemmeno.
Min lära visar er vägen, sanning och liv. Annars ni er själva drivas ner i Helvetet skall
Non dire il mio nome e, se così farai, dal mio insegnamento ti verrà mostrata la Verità, la Via da percorrere fin anche la Vita stessa. Se non mi seguirai, pecorella smarrita, per te saranno aperte le porte dell’Inferno. Helvete. E qui regnerai da lupo.
Sedici anni.
Ci sono voluti sedici anni di attesa per rivedere la nera luce, dopo quel “Anno Serpenti” datato duemila quattro, disco che fu capace di portare con sé una netta presa di distanza da una scena musicale che iniziò a diventare sempre più stretta agli Armagedda.
Fu un taglio preciso, chirurgico, tirato con lucida freddezza a fil di rasoio. Un colpo cinico e spietato su un movimento artistico e culturale in cui, risultò evidente, la band svedese non fu più capace di riconoscersi.
“I Am”, EP che uscì nell’agosto del duemiladieci, tenne in vita il ricordo dei Nostri, ma fu comunque troppo poco: la classica goccia nel mare.
Sedici anni dopo, Andreas Petterson e Stefan Sandström si riaffacciano su un mercato musicale che è molto diverso da quello da cui presero le distanze. Cambiato, non propriamente in meglio.
Con armi ben affilate e un bel po’ di mestiere, i redivivi Armagedda varcano metaforicamente la soglia della scena musicale contemporanea che è si mutata inesorabilmente, ma che ha comunque conservato un forte gusto elitaristico proprio di un genere così selettivo come il Black Metal. A testa alta, con la sfrontata arroganza di chi si sente portatore di verità assolute ed inappellabili, ci propongono questo “Svindeldjup Ättestup”.
Così come Yahweh, il combo svedese con la sua musica crea, dà vita, mette in musica pensieri e idee ferme da anni sotto una spessa coltre di polvere; esistono per essere. Trascinano le loro anime nere fuori dal vortice infernale in cui si erano rintanate, in una sorta di eremitaggio artistico mediato da un odio profondo verso una scena musicale da cui volevano distaccarsi a tutti i costi, e sfornano un disco di ritorno che ha il gusto della rivalsa.
Tornano, con uno sguardo verso il loro stesso passato, e con uno verso il futuro. Non in punta di piedi, ma con il suono roboante della grancassa, come dei tamburelli di guerra de la Grande Armée dai drappi neri come la pece.
Il passato è lì, ad un passo, e a ricordarcelo non ci sono solo note e distorsioni, ma anche le immagini. Nella copertina ad esempio, finemente lavorata tanto da sembrare una litografia dal capace Karl Erik Stellan Danielsson (Watain), il rimando all’artwork di “Ond Spiritism: Djæfvvlens Skalder Anno Serpenti MMIV” salta subito all’occhio.
Avanzo guardando indietro. E nell’avanzare conquisto.
Musicalmente il disco è godibile e ben pensato, curato in maniera precisa per poter offrire al blackster del nuovo millennio un assaggio degno di un nome che nei circuiti estremi gira con orgoglio da più di quattro lustri.
“Ond spiritism”, giusto per parlare di corsi e ricorsi, è una delizia di sincopati cambi tempo e di eteree e fumose ambientazioni. “Likvaka” e “Djupens djup” scivolano sulla pelle dell’ascoltatore come un miele amaro e bollente, colando lussuriosamente ovunque fino alla riuscitissima “Evigheten i en obrytbar cirkel”.
Come il grigio totalizzante dell’immenso Nord, come una trolltaake che scende lungo i neri declivi verso valle, il disco ci conduce nel nuovo corso degli Armagadda in cui l’ascoltatore non è solamente un fruitore di Black Metal 2.0, ma un adepto ai servigi della band.
Graav non canta.
Emerge violentemente dal pronao, nascosto tra le ombre più scure della sua stessa mente. Sta a tu per tu con la divinità, la sfida, risponde alla chiamata all’azione.
Sale i gradini del pulpito.
Non canta, recita.
Per tutto l’incedere del disco usa la voce in maniera marziale, imponente, offrendo agli astanti la sua personale litania ben conscio ed attento ad essere sentito bene da tutto il volgo accorso al suo cospetto.
Gli Armagedda si tolgono la polvere di dosso donando ai propri supporters di ieri e di oggi un lavoro ben fatto, pieno di carattere, tosto.
Andlig svälta tvinga klena till det falska ljuset
Ty prästerna frånvända från det livgivande
Lontani dalla falsa luce, dagli agnelli sacrificali, dalla parola dei servi.
Dritto per dritto.
Ben tornati, Armagedda.