Recensione: Swords Of Midgard
Giunge sul lettore Swords of Midgard, opera prima degli Ulvedharr. Un gruppo che per monicker e titolo del debut si potrebbe immaginare come proveniente dai fiordi di Bergen. La realtà invece ci rivela come non si tratti di Bergen, ma di Berghem (Bergamo) e dunque gli Ulvedharr sono quattro ragazzoni del nord Italia. Nessuno scandalo, poiché ormai i Gjallarhorn hanno sdoganato un genere gelido anche nella calda penisola, che peraltro in tempi andati è stata terra di conquista per i vichinghi. In ogni caso notiamo che la band è nata attorno ad Ark, voce e chitarra del gruppo, già attivo in un progetto omonimo e accompagnato già allora al basso da Klod, cui si vennero ad aggiungere Mike alla batteria e Fhrederyk alla seconda chitarra. Formatisi comunque di recente i nostri, appena tre anni fa, e giunti al primo disco dopo un ep.
In copertina tre spadoni infissi nel terreno, immagine che è uno dei massimi stereotipi del viking (trovate quella stessa immagine nel video di Sigmundskvadet degli Enslaved e in altre dozzine di filmati su Youtube), segnale che ai nostri o mancano i mezzi o la fantasia.
Venendo all’analisi di questo primo lavoro, notiamo come le parvenze vikinghe siano ingannevoli non solo in quanto a provenienza ma anche in quanto a proposta. I nostri infatti si dichiarano apertamente ispirati non già da Bathory, Naglfar e compagni, ma da maestri del death e del thrash quali Vomitory, Slayer o Entombed. Ed eccoci avanti dunque ad un metal grezzo e primordiale, bello carico ed animalesco. Riff trucidi, e voce rauca per circa quarantacinque minuti energici che tuttavia presentano un problema, già rivelato dalla copertina.
In effetti agli Ulvedharr mancano leggermente i mezzi (la produzione non è il massimo), siccome di fantasia, dato che la loro proposta non si distacca molto dai gruppi precedentemente citati e manca vagamente di una propria impronta caratteriale. A questo uniamo il fatto che i pezzi, seppur potenti, non sono delle mazzate che tolgono il respiro, non randellano senza pietà, sicché l’episodio di massima qualità è fuor discorso l’imponente Beowulf and Grendel. Ma il resto del disco risulta omogeneo, troppo omogeneo, dato che mancano sussulti nel furore generale, e finisce per annoiare già verso la metà (Sarà forse un caso che i nostri abbiano messo Beowulf e Grendel nella seconda parte?). Avete capito insomma, ci troviamo avanti ad un lavoruccio discreto, suonato con tanta passione, che però fa troppo poco per emergere in un panorama agguerrito come quello del black/viking/folk/pagan/eccetera attuale.
Il consiglio dunque è quello di non perdersi i live dei nostri che saranno di sicuro impatto, tant’è che li han voluti come spalla i Cattle Decapitation. Il consiglio per gli Ulvedharr è naturalmente quello di continuar su questa strada, ché sicuramente la pochezza di mezzi si risolverà col tempo e con l’aiuto della Moonlight Records (si spera), ma di farlo mettendoci maggior personalità.
Tiziano Vlkodlak Marasco
Topic sugli Ulvedharr
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