Recensione: Symbol Of Eternity
Band: Grave Digger
Etichetta:
ROAR! Rock Of Angels Records
Genere:
Power
Anno:
2022
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
75
Forse non tutti lo sanno, ma c’è stato un periodo in cui i Grave Digger sono stati una delle più importanti metal band del pianeta. Addirittura quasi essenziale per il genere stesso. E contrariamente a quanto possano credere in molti questo periodo non coincide con gli anni 80.
Dopo una partenza a razzo con l’esordio Heavy Metal Breakdown del 1984, la loro corsa si impantana già con il terzo disco War Games, tanto che la loro casa discografica dell’epoca per correre ai ripari, li obbliga a mutare il nome nel meno lugubre Digger e a spostarsi verso un sound più morbido e radiofonico. Il successivo album Stronger Than Ever però si rivela un fiasco e così nel 1987 la band si scioglie. Gli anni successivi vedono Chris Boltendahl e Uwe Lulis vestire bermuda e camice a fiori nel progetto Hawaii, con il quale pubblicheranno solamente un demo promozionale.
Dopo una partenza a razzo con l’esordio Heavy Metal Breakdown del 1984, la loro corsa si impantana già con il terzo disco War Games, tanto che la loro casa discografica dell’epoca per correre ai ripari, li obbliga a mutare il nome nel meno lugubre Digger e a spostarsi verso un sound più morbido e radiofonico. Il successivo album Stronger Than Ever però si rivela un fiasco e così nel 1987 la band si scioglie. Gli anni successivi vedono Chris Boltendahl e Uwe Lulis vestire bermuda e camice a fiori nel progetto Hawaii, con il quale pubblicheranno solamente un demo promozionale.
Ma evidentemente la divisa Hawaiana poco si addice ai due musicisti, che decidono di rispolverare gli abiti a loro più congrui da becchino. E cosi dopo aver ri-arrangiato e rielaborato nel modo più adeguato le migliori canzoni del periodo Hawaii, sono pronti per il ritorno dei Grave Digger. L’anno è il 1993 e la scena musicale è profondamente mutata nel frattempo. L’alternative grunge ormai sta dominando il mercato discografico costringendo molte formazioni metal e hard rock a sciogliersi. Altre, per non fare la stessa fine, hanno tentato di aggiornare la propria proposta musicale con la corrente allora dominante. In aggiunta a ciò molti pilastri del genere, chi per un cambio di cantante (Iron Maiden e Judas Priest), o chi per aver modificato se non stravolto il proprio stile (Megadeth e Metallica), entrano in una fase della loro carriera molto controversa che causerà non pochi malumori e confusione tra i fans. Addirittura una colonna portante come Ronnie James Dio, pur senza mai voltare le spalle al suo passato artistico, se ne esce con due album più cupi e pesanti rispetto ai predecessori, abbandonando addirittura le tematiche fantasy per occuparsi di problemi sociali. In tutto questo marasma per una formazione così ancorata agli anni 80 come i Grave Digger, tornare in pista può sembrare davvero un salto nel buio. Ma per Chris Boltendahl e compagni l’oscurità è sempre stato un habitat naturale. E così i Grave Digger fra il 93 ed il 95 piazzano sul mercato The Reaper e Heart of Darkness, due perle nere intrise di malignità. Due lavori strabordanti riff al fulmicotone, ritmiche incalzanti ed una voce al vetriolo in netto contrasto con i lamenti esistenziali del Seattle Sound.
Per gli amanti del metal classico tutto ciò rappresentò una vera boccata di aria fresca. Un’ancora di salvezza in un mare alternativo che ormai pareva aver spazzato via tutta la concorrenza. Ed ecco così che i nostri scavatori di tombe si ritrovano a far parte di una sparuta resistenza ancora fedele alle sonorità degli anni 80. Un manipolo di irriducibili che rifiuta di piegarsi alle leggi imposte dall’industria discografica di allora.
Nomi come Saxon e Manowar, o i connazionali Running Wild, Gamma Ray e Bilnd Guardian.
Per gli amanti del metal classico tutto ciò rappresentò una vera boccata di aria fresca. Un’ancora di salvezza in un mare alternativo che ormai pareva aver spazzato via tutta la concorrenza. Ed ecco così che i nostri scavatori di tombe si ritrovano a far parte di una sparuta resistenza ancora fedele alle sonorità degli anni 80. Un manipolo di irriducibili che rifiuta di piegarsi alle leggi imposte dall’industria discografica di allora.
Nomi come Saxon e Manowar, o i connazionali Running Wild, Gamma Ray e Bilnd Guardian.
Passano pochi anni ed il grunge comincia la sua parabola discendente consentendo al metal tradizionale di uscire finalmente dall’ombra e riprendersi il posto che gli spetta nel panorama musicale. Nel contempo i Grave Digger rafforzano ulteriormente il proprio ruolo pubblicando la cosiddetta trilogia medioevale composta da Tunes of War, Knights of the Cross ed Excalibur. Poi negli anni successivi, vuoi per l’abbandono del chitarrista Uwe Lulis, vuoi per un paio di album non proprio riusciti, la stella dei becchini si è un po’ affievolita ma certamente non spenta.
Infatti i nostri si sono ormai scavati una nicchia (funebre) dove starsene al sicuro e dalla quale escono con regolarità per salutare tutti e scuotere le nostre giornate con qualche nuovo album.
Infatti i nostri si sono ormai scavati una nicchia (funebre) dove starsene al sicuro e dalla quale escono con regolarità per salutare tutti e scuotere le nostre giornate con qualche nuovo album.
Dopo aver già constatato il loro buon stato di salute durante la loro calata italica a maggio di quest’anno, ecco che ci ritroviamo a parlare del loro nuovo capitolo discografico. Uscito a due anni dal precedente Fields of Blood, questo Symbol Of Eternity vede la formazione immutata, con Axel Ritt (chitarra), Jens Becke (Basso) e Marcus Kniep (batteria) accompagnare ancora lo storico vocalist Chris Boltendahl.
Le tematiche trattate da Symbol of Eternity riprendono l’argomento dei templari, già affrontato in Knight Of The Cross, mentre per la parte musicale si segue il copione di sempre: riff granitici, chitarre taglienti, ritmiche martellanti ed una voce ruvida come la carta abrasiva.
Dopo l’intro The Siege Of Akkon – davvero ben fatto e molto appropriato con le tematiche del disco – si parte con Battle Cry, una speed killer song cruda e veloce con un ritornello semplice ma di forte impatto. Pare proprio che i nostri abbiano deciso di sfoderare subito tutto il loro arsenale distruttivo. Il basso di Jens Becker domina le prima battute della seguente Hell Is My Purgatory, altro pezzo grezzo e rabbioso con la carica di un inno da guerra.
I riferimenti alla già citata trilogia medioevale paiono subito evidenti, ma nonostante nella discografia dei Grave Digger non siano mancate anche delle operazioni di riciclaggio dei loro lavori migliori (state pensando anche voi a Return Of The Reaper o The Clans Will Rise Again, vero?) per questa volta cerchiamo di evitare di fare pettegolezzi maliziosi e facciamo fede ad una evidente passione di Chris Boltendahl per il medioevo.
King Of The Kings parte veloce per poi assestarsi su di un tempo medio che sfocia in un ritornello epico a cui si aggiunge un assolo di chitarra con belle armonizzazioni. Arriva la volta della title track che inizia con un riff di stampo Black Sabbath per cedere il passo poi ad una cadenzata marcia funebre dal sapore doom. Si torna a pigiare di più sul pedale dell’acceleratore con Night Of Jerusalem, altro pezzo in cui si combinano riff grezzi a ritornelli melodici dal sapore epicheggiante. Bene o male queste sono le coordinate sulle quali ci si muove per tutto quanto il resto del disco. Così si susseguono pezzi come la spigolosa Holy Warfare con paio di buoni passaggi ed un discreto assolo. Oppure Heart Of The Warrior o l’epica Sky Of Sword. Più cadenzata invece The Last Crusade, dove parti rocciose vanno a braccetto con ritornelli orecchiabili. In ogni brano poi si erge la voce di Chris Boltendahl che graffia ancora come trent’anni fa.
Personalmente la voce di Chris mi ha sempre suscitato qualche perplessità su certe parti più melodice e liriche. Mentre a cantarle con la voce pulita è protagonista di un’esecuzione soddisfacente, al contrario interpretate con il vocione ruvido, dà un risultato finale un po’ troppo sgraziato. Tipo l’effetto da unghie sulla lavagna. Dettaglio questo che evidentemente non deve aver preoccupato più di tanto Boltendahl, facendolo anzi diventare un marchio di fabbrica dei Digger.
Un pezzo che ha poi attira l’attenzione è Grace Of God, un heavy robusto con parti folk e passaggi vocali che strizzano l’occhio ai Blind Guardian.
In conclusione troviamo Hellas Hellas, una cover del musicista greco Vasilis Papakonstantinou, che vede Chris Boltendahl esibirsi in lingua ellenica e duettare in coppia con lo stesso Vasilis.
Symbol of Eternity è il classico disco che è lecito aspettarsi dei Grave Digger. Un lavoro che non presenta sorprese rispetto alle uscite passate e che obiettivamente nessuno si aspettava di trovare.
Per i lavori dei Grave Digger vale la stessa regola applicata agli album degli AC/DC o degli indimenticati Motorhead.
Sappiamo già che ci troveremo al cospetto di pezzi grezzi, ruvidi e prorompenti: sinceramente sarebbe stato insensato pretendere che fosse in altro modo.
D’altro canto però, quando si propone uno stile così predefinito la linea che scorre tra un buon disco ed uno mediocre è molto sottile. La differenza allora la fanno i dettagli: come il riff indovinato, la melodia che ti rimane in testa, l’arrangiamento appropriato o quella rifinitura piazzata al posto giusto. Caratteristiche queste che, bene o male, sono state soddisfatte anche in Symbol Of Eternity.
Non sarà certo il loro miglior disco, ma è comunque un buonissimo lavoro.
In futuro potrebbero farne di migliori, o magari qualcun altro meno riuscito. Quello che conta però è che i Grave Digger ci siano ancora e che restino con noi ancora a lungo: sarebbe un grosso errore considerarli superati e ridondanti.
Per i lavori dei Grave Digger vale la stessa regola applicata agli album degli AC/DC o degli indimenticati Motorhead.
Sappiamo già che ci troveremo al cospetto di pezzi grezzi, ruvidi e prorompenti: sinceramente sarebbe stato insensato pretendere che fosse in altro modo.
D’altro canto però, quando si propone uno stile così predefinito la linea che scorre tra un buon disco ed uno mediocre è molto sottile. La differenza allora la fanno i dettagli: come il riff indovinato, la melodia che ti rimane in testa, l’arrangiamento appropriato o quella rifinitura piazzata al posto giusto. Caratteristiche queste che, bene o male, sono state soddisfatte anche in Symbol Of Eternity.
Non sarà certo il loro miglior disco, ma è comunque un buonissimo lavoro.
In futuro potrebbero farne di migliori, o magari qualcun altro meno riuscito. Quello che conta però è che i Grave Digger ci siano ancora e che restino con noi ancora a lungo: sarebbe un grosso errore considerarli superati e ridondanti.
Non si sa mai che capiti di trovarci ad avere ancora bisogno di loro. Come ad inizio anni 90…