Recensione: Symmetry In Black
Da sempre, si cerca di classificare gruppi e movimenti in generi e sottogeneri, un’inclinazione radicata soprattutto in Europa, che spesso limita quei musicisti che vogliono solo esprimere la propria sensibilità facendo musica priva di stereotipi.
Libero dai vincoli dei generi e delle classificazioni giornalistiche, il panorama musicale statunitense ha dato vita a complessi che hanno rivitalizzato la scena degli anni novanta, introducendo nuovi stili e, a volte, attualizzando trend già collaudati.
Windstein e i suoi Crowbar, come la tradizione americana insegna, hanno suonato la propria musica prima come espressione di se stessi e poi come iniziatrice di un movimento sussidiario al metal: lo sludge.
Dopo alcuni anni di silenzio, Kirk e la sua cricca restituiscono ai propri adepti il loro inconfondibile doom-core attraverso i solchi di “Symmetry In Black”.
Gli ingredienti della formula non sono cambiati ma si sono consolidati nella coscienza del combo e questo aspetto, considerato il genere trattato, non è un difetto ma è una garanzia per gli appassionati: sì, cari fedelissimi, non vi preoccupate, i Crowbar non hanno allentato la presa e l’ingrediente sabbathiano, seppur presente, viene sempre utilizzato come base su cui plasmare un sound originale e privo di compromessi, vero vanto di Mr. Windstein.
E, quindi, quale brano migliore se non l’opener, “Walk With Knowledge Wisely” per immedesimarsi nel pensiero dei padri dello sludge: l’ascoltatore è subito schiacciato da un suono a dir poco monolitico mentre la rabbia di Windstein viene compressa nelle liriche aspirate e rancorose.
Il pattern si trascina con immane pesantezza come lo sludge impone, per eleversi laddove i vibrati rubano la scena al cantato e si intrattengono in pitch alti e dilatati. Una sferzante accelerazione irrompe, spezzando la monotonia, prima che il brano si concluda con un rallentamento estenuante.
“Symmetry In White” non arretra e materializza visioni inquietanti mentre Windstein alterna cantato pulito ma lugubre all’usuale sforzato, rantolo di dolorosa rabbia.
Il mood varia con il groove concentrico e movimentato di “The Taste Of Dying” e la conferma viene dal coro: sebbene le linee vocali rimangano cavernose, con immane sforzo il frontman riesce a sollevarle in un grido disperato, tracciando una potente, ossessiva scia di sofferenza, nella quale assaporare l’amaro gusto della morte.
Disillusione meditata e non vuota autocommiserazione traspare in “Reflection Of Deceit”, manifesto programmatico che racchiude un brano tormentato da una lentezza sfiancante. Al di là del trend, una lenta melodia si delinea nel refrain centrale, più avanti cooptata dai drammatici vibrati.
In questo mare di disperazione in slow motion, “Ageless Decay” si erge nelle vesti di sapiente crossover tra le veloci ritmiche del thrash e gli innesti rallentati tipici del doom, dove il suono è dominato dal roco ruggito del frontman, il vero cerimoniere dell’album.
Nell’atmosfera nebbiosa di “Amaranthine” alleggiano voci lontane e si distingue il suono malinconico degli arpeggi, sottili trame che nascondono la tristezza della solitudine, riecheggiando il lato più drammatico del thrash anni ’90 (Metallica in primis).
Continuando ad addentrarci nel dominio personale dei Crowbar, il set assume colori ancora più cupi e poco rassicuranti: l’allucinante “The Foreboding” procede su accordi massicci che arrancano in un pesante slow motion, nel quale le voci e i suoni si dilatano e inghiottono tutto come una macchia di pece nera, densa e vischiosa.
“Shaman Of Belief” è ancora una lenta flagellazione dominata da un Windstein incontenibile nei suoi penetranti urli. Quando il rutilante vociare svanisce, la chitarra mostra il suo vero valore sguinzagliando una scarica di riff concatenata alle percosse del frenetico drumming.
Al di là dell’inciso solista, il pezzo è un esempio routinario di sludge che non aggiunge novità al pattern, cemetificando il suono monolitico senza spostare di un millimetro le coordinate musicali.
Maggior dinamicità subentra attraverso la movimentata “Teach The Blind To See”, core metal corrotto e avvelenato da una dose malata di doom. I riff muscolosi vengono spezzati da pause improvvise, che intensificano la sensazione di precarietà e nervosismo racchiusa nelle liriche del testo.
Un accenno di melodia si solleva da “A Wealth Of Emphaty”, accenno che è possibile ricomporre unendo i pezzi di sofferente armonia celati nel chorus soffocato e nei tristi vibrati, in modo da consegnarci uno dei migliori brani di questa nera simmetria.
Il chiaroscuro “ritmica veloce – playguitar a spirale” è ancora scolpito nei solchi di “Symbolic Suicide”, capace di colpire sia con implacabile frenesia nel pre-chorus che con immane pesantezza nel chorus, che deforma le linee vocali per infierire profonde lacerazioni nella nostra fragile mente.
I suoni si fanno plumbei e oppressivi verso la fine del brano, come se stessimo smuovendo una fredda pietra tombale.
E proprio questi suoni, come cerchi nell’acqua, si propagano e si trasmettono a “The Piety Of Self-Loathing”: gli assoli vibrano pietà e desolazione mentre, come in un cerimoniale, procedono concentrici per tutta la durata del brano. Il brano è essenzialmente un pezzo strumentale in cui la parte finale di “Symbolic Suicide” viene ripetuta fino all’esasperazione, accentuando le tonalità del guitar work, che suona elegante ed enfatico nella sua drammaticità.
“The Piety Of Self-Loathing” è nient’altro che una “traccia-epilogo”, posta simbolicamente a chiusura della penultima canzone e, più in generale, dell’intera tracklist, con l’intento di rendere il finale più suggestivo.
A suo modo “Simmetry In Black” non sposta di una virgola l’inflessione a cui il buon Windsetin ci ha abituato, a base di incontaminato sludge: se, da una parte, lo stile monolitico dei Nostri ritrova rassicurante conferma in canzoni quali “Walk With Knowledge Wisely” e “The Taste Of Dying”, dall’altra, l’album si rivela alla lunga un manuale di sludge senza grandi scossoni che piacerà agli amanti del genere e potrebbe intrattenere qualche transfugo proveniente dal doom più ortodosso, che vuole confrontarsi con sonorità maggiormente pesanti e alternative, senza rinunciare ad uno stile evocativo esasperato dalla consueta, estenuante lentezza.
Se, invece, avete poca dimestichezza con il genere, prima di avventurarvi in “Simmetry In Black”, sarebbe consono prendere atto del fenomeno sludge attraverso le passate, pregevoli esperienze del combo, su tutte “Time Heals Nothing” e, ovviamente, il mito “Odd Fellows Rest” (considerando anche il fatto che, per forza di cose, la prova in questione dimostra una minor freschezza compositiva rispetto ai suddetti capolavori).
Una volta assimilato il contesto e le coordinate dei Nostri, ai novellini e ai profani sarà più facile accettare il coriaceo (ma stuzzicante) mood di Mr. Windstein.
Insomma, un album da non ignorare ma consigliabile a chi ha già metabolizzato le sue caratteristiche peculiari e che ha, quindi, le corrette chiavi di lettura per questo genere: per gli habitué sarà un’ottima occasione per ritrovare il proprio beniamino mentre, per tutti gli altri (non avvezzi a queste sonorità), sarà meglio optare per i dischi d’esordio e, in un secondo tempo, considerare questa ennesima, monumentale prova.
Eric Nicodemo
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